L’Ultimo Caffé

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L’ascoltavo parlare tenendo gli occhi un po’ socchiusi, il sole era sbucato da dietro la tenda nella sua corsa verso il tramonto e i raggi disegnavano una luccicante aureola sui suoi riccioli d’oro, rendendola ancora più simile ad una creatura del cielo. Mi raccontava, descriveva, come un fiume di parole che  alla foce libera le acque cercando di colmare il mare, un mare che ci aveva visto tante volte stretti, in silenzio, abbracciati o legati in un bacio. Era bella, affascinante; mi piacevano le sue mani curate ma senza trucchi, senza smalto. Un anello con una grande pietra colorata tracciava nell’aria traiettorie come voli di  gabbiano nel vento, mentre mi raccontava di quello che aveva fatto il sabato, all’insaputa di tutti, per il solo piacere di sentirsi libera. Era andata in montagna, in macchina, tutta sola. Aveva mangiato in una trattoria cinghiale e puré, una mezza bottiglia di vino rosso, e poi si era distesa al sole, sulla coperta a scacchi che teneva sempre sul sedile posteriore. Si era addormentata lasciandosi cuocere dal caldo sole di giugno, infastidita soltanto da qualche insetto attratto dalla sua pelle candida al quale aveva riservato una secca manata per dissuaderlo, invano. Poi, quando il sole si era nascosto dietro le fronde degli abeti, aveva raccolto le sue cose ed era risalita in macchina, per tornare a casa. Si sentiva felice di tutto questo, aveva messo da parte famiglia, problemi, impegni, anche me. L’ascoltavo ammirato, era la donna che sempre avevo desiderato, eppure la stavo perdendo, per sempre. Parola dopo parola la sentivo andar via, lontano, senza di me, da me. Una sensazione terribile, definitiva, come il taglio di un tessuto pregiato che nessun sarto sarebbe riuscito a riparare. Il nostro parlare era simile a tante altre volte eppure nel suo tono, nei suoi gesti, io non c’ero. O forse ero io che non la riconoscevo, che non accettavo quella lei così sicura, indipendente, libera? Mi vennero in mente due barche nel porto, ormeggiate una all’altra, danzanti nel sciabordio della risacca. Poi una molla gli ormeggi e lentamente, quasi senza accorgersene, si allontana, sinché la distanza diventa definitiva; nessuna cima a bordo sarebbe in grado di agguantare l’altra. Allora non resta che seguire con lo sguardo la piccola scia che lascia nel porto, sperando in un colpo di remi, in una pagaiata. Ma il vento porta solo le parole di lei e sorseggiare quell’ultimo caffè assieme era la cosa più amara che avessi mai bevuto. Poi anche il sole lascia spazio al tramonto, la brezza di mare porta i profumi della spiaggia, delle siepi in fiore, gli occhi si inumidiscono di lacrime al pensiero di quei baci senza un futuro, senza un ancòra. Vedo mille riflessi sulle mie ciglia umide, la mia vista è annebbiata da quei riflessi ramati. Asciugo le mie lacrime, vergognandomi un po’ di essermi lasciato andare e vedo la sedia vuota, lei non c’è, non c’è più, forse non c’è mai stata seduta su quella sedia. O forse, molto più probabilmente, non ci sono più io. Il pensiero dell’abbandono era insopportabile e la mia mente è volata altrove, lasciando nella tazzina quell’ultimo caffè a raffreddare…

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