Tutti la chiamavano “la gattara” e a lei, Marisa, questo poco importava. In realtà quel nome le aveva procurato più di un problema: quei due anziani signori del secondo piano di via Andria avevano telefonato ai vigili urbani lamentandosi: “C’è una gattara che tutte le mattine porta da mangiare ai randagi. E’ uno schifo, dovete fare qualcosa…”. Loro, i vigili, si erano appostati in macchina e l’avevano multata mentre portava cibo ai suoi “amici”, un buon numero di gatti randagi che già alle sette del mattino si piazzavano ai giardinetti, aspettandola. Ma Marisa non si era fatta intimorire, maledicendo a gran voce, in modo che le due “spie” potessero sentirla, tutti quelli che non avevano rispetto per quelle anime abbandonate. La multa non l’aveva pagata, tanto non potevano prenderle nulla. Nulla aveva. La notte si puntava la sveglia e alle quattro del mattino, quando nel quartiere regnava il più assoluto silenzio, si metteva il giaccone sopra il pigiama e indossava gli stivali per scendere in strada con la “pappa” che aveva preparato la sera prima. Per loro, otto felini liberi come il vento, il cambio di orario non fu un problema. Si adattarono in soli due giorni e nel buio della notte i loro occhi risplendevano come lanterne. Io Marisa la incontrai per caso, proprio in un negozio di animali. Aveva messo davanti all’ingresso un bidone di detersivo sul quale aveva incollato un cartoncino ritagliato da una pubblicità, dove un gattino coricato su un fianco sorrideva. A penna aveva scritto, con calligrafia tremula: “Una scatoletta per chi non ha casa”. Avevo appena fatto la scorta per il mese; Perla e Zelig gradivano il cibo di un’unica marca e lì i prezzi erano convenienti. Mi fermai a chiacchierare, ponendo nel contenitore due delle scatolette appena comperate. Lei mi sorrise, iniziando il suo racconto, forse ripetuto centinaia di volte per toccare il cuore di chi, come lei, aveva in carico uno o più gatti. Da sempre li amava; quando era piccola viveva fuori città e nel giardino di casa aveva ospiti illustri. Una coppia di soriani arrivati da chissà dove che si erano appostati al limite del terreno, dove Poldo, il meticcio di casa, non poteva raggiungerli. Lui si disperava, abbaiando e saltando contro la recinzione, inutilmente. Lei portava cibo ai due mici, posandolo proprio al di là della rete e dopo qualche giorno, complice la solitudine del povero cane, i suoi attacchi scemarono trasformandosi in mugolii. Incredibilmente bastò una settimana perché i due avessero il permesso di entrare nel raggio d’azione del mastino e dopo neanche un mese divise con loro pasto e cuccia. Per Marisa tornare da scuola e vederli vicini, mentre lui leccava delicatamente prima l’uno e poi l’altro, era un piacere immenso. Adorava ogni genere di animale e sognava che in tutto il mondo, umani compresi, potessero vivere in quella armonia. Nei suoi pensieri di bambina creava ragioni cercando di darsi una spiegazione la dove nessuno sapeva darle una risposta. Aveva visto in televisione leoni che rincorrevano e sbranavano gli gnu, con una violenza che la terrorizzava. Sovrapponeva quelle immagini alle scene di guerra in medio oriente, uomini che uccidevano altri uomini. Come erano diverse quelle immagini da quelle dei pompieri che rischiavano la vita per salvare altre vite, oppure il servizio visto su National Geographics dove una tigre allattava amorevolmente due maialini orfani. Cominciò a pensare che la Genesi fosse stata incompleta, imperfetta. Che a un certo punto, durante la creazione, Il Creatore si fosse distratto o fosse dovuto andar via, non completando l’opera. “Pensa,” diceva parlando a Poldo mentre lo coccolava, “che bello se gli animali fossero tutti erbivori…”. Il cane la guardava amorevolmente, non capiva nulla di quelle parole ma la sua voce dolce lo rassicurava e lo rendeva felice. “Perché gli animali e gli uomini si azzuffano, si uccidono e contemporaneamente si amano o si accudiscono. Cosa c’è di sbagliato nell’incontro?”. Non si accontentava di ciò che aveva letto sul libro di scienze, neanche con quello che le aveva detto sua mamma. Per lei un mondo così era possibile. Forse, pensava, bisogna che qualcuno cominci e lo insegni a tutti gli altri. Pensò di farsi suora, oppure maestra. Di girare il mondo a professare la pace, a insegnare a tutti, uomini e animali, l’amore per i propri simili, per i più deboli. Poi la vita l’avvolse, la coinvolse, fece la moglie, la mamma, lasciando i suoi sogni in un cassetto, pensando che poi il giorno sarebbe venuto. Gli anni le si sfilarono dalle mani come granelli di sabbia quando arriva l’onda, senza accorgersene nemmeno. I figli diventarono adulti, grandi, lasciarono quella città per andare a vivere lontano. Rimase sola, senza nessuno che si occupasse di lei. Allora quel bisogno di tenerezza che aveva nascosto per anni, per tutta la sua vita, cominciò ad affiorare. Una mattina presto, al ritorno dal mercato, il miagolio di un gattino tra l’erba attirò la sua attenzione. Posò a terra le borse e allungò le mani verso quella creatura; aveva poche settimane di vita ed era solo, come lei. Lui, Garfield, aspettò il contatto composto, appena sospettoso, per abbandonarsi a rassicuranti fusa appena le dita lo racchiusero contenendolo. Marisa lo portò a casa, preparandogli un angolino tutto per lui, con una coperta di panno colorato. Poi aprì la confezione di prosciutto appena acquistato e lo divise con lui, guardandolo soddisfatta mentre mangiava di gusto. Nei giorni a seguire decise di deviare un poco il suo percorso, attraversando i giardinetti. Si accorse che molte altre anime “pelosette” abitavano tra quei muri, in quegli anfratti, e decise che da quel giorno si sarebbe occupata di loro. “Ognuno ha la sua storia, sa?” Mi disse; aspettando chiaramente un mio consenso a raccontarne alcune. Posai le scatolette in macchina, poi tornai da lei. “Me ne racconta qualcuna?” chiesi. Marisa mi aprì così le porte del suo mondo incantato, quello che aveva sempre sognato di abitare.
Ettore, il gatto della cartomante
Melina, una gattina deliziosamente libera