Remo me lo aveva chiesto con una certa supplica: “Vieni con me domenica che usciamo a vela? Ho
promesso di portare a prendere il sole al largo a due mie amiche di Torino e ho bisogno di una
mano”. Scrutai il suo sguardo mentre con piccoli cenni del capo cercava di darmi ad intendere che
la giornata sarebbe stata molto intrigante benché, conoscendolo da tempo, quella base di supplica su
cui poggiava la sua mimica mi lasciava un sospetto profondo. Vinse ogni resistenza il pensiero di
una uscita in barca a vela durante una domenica di sole e vento ideale per fare qualche bordo
azzardato. La mattina dopo mi recai alla banchina di buon ora come sempre quando andavo con lui,
sapevo che nonostante le sue rassicurazioni non c’erano problemi con l’orario, era contento di mollare
gli ormeggi presto. Vidi Remo in banchina, con cacciavite ed una presa elettrica mentre armeggiava
a rinforzare un cavo. “Hanno telefonato che sono un po’ in ritardo” mi disse senza guardarmi in
viso. “Problemi di traffico?” chiesi. “No, problemi…” rispose, con una cadenza inequivocabile.
“Boh, sono amiche sue” pensai mentre posavo il borsone in cabina. Quando l’orologio aveva da
poco passato le undici del mattino e noi, oltre ad aver fissato il cavo elettrico, fatto tre colazioni e
rifornito la cambusa con una sostanziosa spesa, ci apprestavamo a rilassarci a poppa raccontandoci
della settimana, sentimmo il rombo della spider di Micaela, decappottata e le risate della sua amica
Monica. Essendo noi sottovento ci giunse il profumo conturbante delle due signore misto all’odore
del tabacco che fumante fuggiva dalla sigaretta di Michela. Ed anche un residuo di marmitta
catalitica da revisionare che conferiva a quel melange aromatico un non so che di inquietante. La
calma quiete della banchina lentamente fu conquistata dal loro allegro vociare, mentre scaricavano
dal bagagliaio due borse ed un trolley, oltre che due sacchetti di carta bianca firmati. Guardai Remo
chiedendogli se le aveva ospiti tutta la settimana e lui stupito mi rispose che l’accordo era un rientro
il giorno dopo, lunedì sera. Le due amiche avevano un atelier da parrucchiera a Torino e quei due
giorni volevano essere un ricordo indimenticabile. Sospettai, per istinto, che anche per me sarebbe
stata un’esperienza unica, ma non immaginavo che la realtà potesse superare la fantasia. Nel mentre
si incamminarono verso la barca, con un seducente ancheggiare ed un’aurea di mondanità
indescrivibile. Sospettai che anche il boccheggiare di alcuni cefali a pelo d’acqua, nel porto, fosse
un tentativo di capire, da parte dei poveri pesci, quale nuovo fortunale stesse arrivando. Precisiamo,
erano due belle donne senza ombra di dubbio e, trovandosi alle undici di sera ad attenderle davanti
ad un disco pub affollato, sarebbe stato motivo di vanto e di prestigio esserne i cavalier serventi.
Tacchi a spillo, jeans con brillanti pajette multicolori e due canottiere sgargianti raffiguranti una
gatta soriana dagli occhi verdi e l’altra una provocante bocca rossa. Due cappelli simili, ma di
colore diverso, raccoglievano boccoli, orgoglio del loro reciproco intervento di messa in piega.
Tutto perfetto, per una serata in discoteca. Un disastro per una gita in barca. Ma si sa, noi cavalieri
siamo, e con solerzia ci alzammo per aiutarle a salire a bordo, passandoci le numerose sacche e poi
aiutandole a traversare l’incerta passerella. La voce di Remo tuonò impetuosa quando si accorse che
l’intenzione era di tener ai piedi quei devastanti tacchi a spillo e per un attimo il buon umore delle
due amiche si spense come candela al vento. Fu un attimo ed assecondando l’invito si sfilarono gli
zoccoli poggiando i piedi nudi sul legno della coperta, quasi con un po’ di ribrezzo. Si sa, il
pozzetto di una barca a vela non è una piazza d’armi, in un attimo ci fu una confusione simile
all’ora di punta in metrò e corremmo il rischio di avere un uomo in mare prima ancora di lasciare la
banchina. Fui io che indirizzai, con cortesia ma decisione, Monica sotto coperta a mettersi a proprio
agio e prepararsi per la giornata di sole. L’idea di sdraiarsi in bikini sul materassino per farsi
arrostire da quei raggi caldi risolse ogni indugio. Scesero entrambe in coperta a mettersi costume ed
abbronzante. Intanto noi lasciammo l’ormeggio e manovrando con la solita abilità, Remo condusse
la barca in mare aperto in men che non si dica. C’era un po’ di mare, il vento era teso anche se
moderato, e le onde si increspavano leggermente. La prima ad uscire fu proprio Monica che
brillante di olio come un lottatore asiatico alzò lo sguardo al sole, offrendosi ai suoi raggi. Inutile
raccontarsela, l’aspetto delle donne era molto gradevole e quei loro attimi di impaccio facevano
parte del passato remoto. Michela poggiò invece il suo unguento sul tek della barca, per rientrare in
coperta a prendere l’asciugamano. Una leggera sbandata convinse il barattolo di abbronzante a
sdraiarsi sul pavimento e, siccome era senza il tappo, il liquido color ambra cominciò a colare sui
legni. Cosa avrei dato per avere una macchina foto; poter riprendere lo sguardo di Remo che
implorando il liquido a sfidare le leggi della fisica, restasse nel suo recipiente senza lordare ed
ungere il prezioso legno. Lui, l’olio, ignaro della preghiera, si distese a macchia, infilandosi tra le
fibre del legno. Fu Michela che lo afferrò, un po’ scocciata: “Ma si deve proprio muovere così
questa barca?”. Disse questo uscendo dalla coperta e fu solo il suo muoversi da gatta che distrasse
l’attenzione e l’istinto omicida di Remo. Sdraiate al sole, mentre la barca filava veloce di babordo,
per qualche minuto l’atmosfera sembrò rasserenarsi e con lei tutte le tensioni. Cercai di riassorbire
con un tovagliolo di carta l’abbronzante sparso. “Pronti alla manovra” fù l’ordine del comandante
che decise di fare il bordo prima di scendere troppo sotto costa. Mollai la randa ed il fiocco in
sincrono con la virata ed il vento spinse il boma a cambiare lato. Contemporaneamente Monica si
alzò seduta chiedendo cosa stesse accadendo ma venne rimessa subito giù dal legno che battendo
sulla fronte evitò di fare danni irrimediabili solo perché il suo alzarsi era incompleto. La povera
malcapitata lanciò un urlo simile a una sirena e subito sulla fronte comparve un bozzo con un
rossore inconfondibile. Mentre noi si tirava le scotte per rimettere la barca in assetto Milena si
precipitò a cercare del ghiaccio sotto coperta, nel frigo. Così facendo sbandò nello scendere gli
scalini precipitando all’interno rumorosamente. Sdraiata a terra, con le gambe scalcianti l’aria, si
mise ad imprecare al pari di un camallo del porto di Genova, guardando con occhi fiammeggianti
Remo. “Ferma questo inferno” urlò dall’interno ed una serie di strali infuocati ci raggiunsero
violentemente. La povera Monica si teneva la fronte ma il vero dramma fu quando, togliendo dalla
borsetta uno specchio da viaggio, vide il bozzo ed il rossore. Non il dolore, ma l’orribile bozzo, a
suo dire, era il danno vero, irrimediabile. “Voglio tornare a casa” urlò con forza, “torniamo
indietro”. Chiunque di noi ha avuto nella vita esperienza di situazioni simili; con la fidanzata in
campeggio, con la compagna in casa o a passeggio una domenica pomeriggio al parco. Si sa, noi
uomini siamo specializzati in imbarazzanti silenzi in cui non sappiamo cosa dire e potremmo
desiderare di essere sotterrati all’istante, o ci rifugiamo in un sonno liberatorio. Le nostre compagne
generalmente no. Per loro il problema va risolto qui, subito ed ora. Più il tempo passa, più la
situazione si complica, si gonfia, si arricchisce di particolari e si ingarbuglia. Bene, in situazioni
terrestri gli spazi permettono che si creino angoli di fuga, sufficienti distanze fisiche che permettano
lo stempero delle emozioni,. Su una barca no! Già in condizioni ottimali la convivenza è complicata
ed un bisogno fisiologico naturale come pipì o altro può diventare un problema insormontabile.
Figurarsi una discussione come quella che progressivamente si stava costruendo tra noi quattro. “Ce
lo dovevi dire che andare in barca è così un casino!” fu l’inizio di un botta e risposta sempre
sull’orlo di degenerare in rissa. La rotta presa fu inevitabilmente quella del porto. Direzione
ormeggio e sbarco immediato. In men che non si dica ci trovammo saldamente legati alla banchina,
la barca ferma ed i bollenti spiriti reciproci in attenuazione. Il bozzo sulla fronte di Monica era in
lento recupero e nel suo sguardo sconsolato c’era il sunto di quelle due ore di incubo. Poi
guardandoci rispettivamente, si convenne di scendere a terra e fare la cosa più sensata per il nostro
gruppo insolito: prendere l’auto e fare un bel giro in città, tacchi a spillo e canottiere sgargianti
guardando due vetrine in attesa dell’ora di una buona pizza. Per le gite in barca quello fu un
insegnamento da incorniciare; prendere il mare solamente con poco vento ed una assoluta calma
ciano un segno, sicuramente.