C’è una storia, una storia assolutamente vera, che mi piacerebbe raccontare. E’ una storia semplice che è emersa dai miei ricordi per caso, chiacchierando. Parlando di animali, s’intende, ma all’interno della quale si cela, così come in tutte le cose semplici, una grande verità della vita. Non mi dilungo oltre e vengo al sodo. Un bel po’ di anni orsono, primi anni ottanta per la precisione, giravo per l’Italia a bordo di un furgone attrezzato per esporre aspiratori d’aria. Era il mio primo lavoro “serio”, facevo il promotore presso i grossisti di casalinghi per una nota casa italiana di elettrodomestici, visitando i loro clienti e spiegando, illustrando, tentando la vendita dei miei prodotti. Mi divertivo molto, ero poco più che un ragazzo e avevo l’opportunità di girovagare ovunque, dal Veneto alla Sicilia, dormendo in albergo e mangiando fuori pranzo e cena. Si, soffrivo un po’ di solitudine; non è facile fare amicizie quando ti fermi in una città due o tre giorni al massimo. Però ogni giorno era un’esperienza nuova e passare dal dialetto lombardo al catanese stretto era davvero emozionante. Sono quei lavori ai quali se pensi dopo anni, così come accade per il militare, ricordi aneddoti e avventure da intrattenere per una serata amici e parenti. All’epoca ero a Sesto Fiorentino, si era sotto Natale e, come è noto, la sera da quelle parti non fa molto caldo. Uscii dall’Hotel per cenare e nella piazza del paese, di fronte alla trattoria, c’erano le giostre pronte per le feste. Decisi così dopo cena di girovagare un poco tra i banchi, sparando al tiro a segno, facendo due giri sugli autoscontri e poco prima di rientrare, mi avvicinai al banco in cui, lanciando le palline verso alcuni vasetti pieni d’acqua in cui nuotavano faticosamente alcuni pesci rossi, tentai la fortuna. Certo, perché diciamocelo, non è l’abilità che ti fa centrare il buco del vasetto, solo uno spudorato rimbalzo multiplo che porta la pallina, dopo una preoccupante indecisione, ad avvitarsi nel collo del barattolo e finirci dentro. Così successe; dopo aver tentato innumerevoli tiri, una queste decise di centrare l’obbiettivo. Un po’ come un bambino esultai: “Centro…” dissi ad alta voce e l’inserviente, dopo aver verificato la regolarità del mio dire, si congratulò con me. Prese un sacchetto tra quelli appesi in alto nel cui interno una pesciolina dalle pinne vellutate e le lunghe ciglia aspettava ansiosa che il suo destino cambiasse rotta. “Mi scusi, ma mi farebbe piacere avere quello del barattolo, ho vinto lui io”. Il tizio mi guardò incuriosito, mi porse il sacchetto per tenerlo e travasò l’altro in un sacchetto in cui aveva aggiunto acqua fresca. Si avvicinò per darmelo e, quasi mi confidasse un segreto, mi disse: “Li tenga tutti e due, si fanno compagnia… Sa,” continuò girandosi un attimo quasi ad accertarsi che nessuno lo sentisse, “non sono semplici pesci, sono creature!”. Io sorrisi imbarazzato, ero troppo giovane per rendermi conto che capivo benissimo, anzi condividevo in pieno, quello che mi stava dicendo. “Li tratti bene, mi raccomando…acqua pulita e poco cibo, ma buono. Le do anche una confezione di mangime del mio, sono abituati a quello…” e mi rifilò per poche lire un barattolino senza etichetta, affidandomi le “creature” così come si consegnano i figli la mattina alle maestre dell’asilo. Mi allontanai perplesso, anche un poco incantato, tendo i due sacchetti in mano. Rimirandone il contenuto. Nel loro piccolo mare i due pesci boccheggiavano guardandosi. Chissà pensai, forse si stanno dicendo “Mal comune mezzo gaudio…” oppure: “Ecco, dalla padella alla brace…”. Salii in camera con i nuovi ospiti. Già, e adesso? Il rientro a casa per me era previsto da lì a un mese, due giorni ancora a Sesto e poi giù a Roma per tre settimane. Certo che i due ospiti non avrebbero potuto vivere tutto quel tempo nel sacchetto. Mi resi conto che mi ero cacciato in un bel pasticcio. Pensai: “Va beh, sono solo due pesci… che importa” guardando il water come una soluzione al problema. Rividi in quel momento lo sguardo del signore al chiosco e nella mentre le sue parole risuonarono, come quelle di un oracolo. Senza pensarci due volte, riempii il bidet, sincerandomi che la guarnizione tenesse bene. Poi lasciai un sottile filo di acqua corrente, per poi liberare all’interno i due giovani amici. Beh, certo, dopo ore in quel contenitore di nylon con poco ossigeno trovarsi in quello splendido lago fu per loro una gran festa. Dopo un attimo di esitazione iniziarono a nuotare vivaci, salendo in superfice ripetutamente. Cercavano cibo, ne ero certo. Misi un pizzico di scaglie nell’acqua e fui felice a vederli avventarsi con appetito su quelle briciole. Chiusi la luce, andai a dormire. La mattina dopo quasi mi ero dimenticato della loro presenza, ma il flebile rumore che facevano boccheggiando a pelo dell’acqua per chiedere cibo fu il saluto del buongiorno. Scrissi allora un grosso biglietto da apporre sul bidet: “Prego non toccare i pesci!”. Monito per le signore che sarebbero venute a fare la camera. Poi scesi a far colazione e avvisai il portiere che mi guardò sgranando gli occhi. Forse se gli avessi detto che in camera avevo una tigre si sarebbe stupito di meno! Andai al lavoro e quando con il venditore del grossista, raggiungemmo il suo primo cliente, un “casalinghi”, il mio sguardo cadde subito su uno di quei grandi barattoli che si usano per le marmellate, con il tappo a scatto e la guarnizione. La comprai. La sera tornato in albergo la proposi a Ginevra e Lancillotto, così li avevo chiamati. Mi sembrò di capire che la preferissero coricata, piuttosto che in verticale nella posizione corretta. Così feci. Liberai in questo modo dall’impegno le donne delle pulizie e quando lasciai l’albergo, valigia in una mano e Burnia nell’altra, intesi che il portiere era convinto di liberarsi di uno psicopatico. I due pesci gradirono il viaggio verso Roma e il fatto che fossero con me non stupì per niente il mio prossimo cliente. Anzi, si offrì di ospitarmeli, per il periodo di permanenza, in un acquario dietro la sua scrivania nel quale aveva solamente piante acquatiche. Certo, Ginevra e Lancillotto appena dentro impazzirono di gioia. Neanche nei loro sogni più reconditi esisteva un paradiso pari a quello. Si rincorsero giocosi, spizzicando le foglie sulle quali si erano formate gustosissime alghe. Le tre settimane trascorsero in un lampo, era ora di tornare a casa. Il cliente si offerse di trattenere i due pesci. “Qui stanno meglio che nel suo vaso. Ne avrò cura, non si preoccupi…”. Quando il destino ti affida una cosa, qualunque essa sia, non lo fa mai per caso, ma perché tu possa metterti alla prova. Lo so, sembra banale, anche un poco stupido. Ma ricordate quando andando a scuola facevate, con un legno, “cantare” le sbarre della ringhiera lungo il percorso, quelle che contornavano la ringhiera del vicino? Se per caso ne saltavate una, tornavate indietro, perché “dovevate” toccarle tutte! Il giostraio mi aveva detto: “Abbine cura…” e non “Lasciali da qualche parte…” Era un po’ una sfida, per loro avevo grandi progetti. Li rimisi nella “burnia” e di questo non mi sembrarono così infelici. Certo, lo spazio era meno, ma Lancillotto poteva star più vicino alla sua Ginevra e anche lei, sembrava, gradisse ancor più quel serrato corteggiamento. Il rientro non fu così facile, un incidente a Barberino del Mugello ci bloccò in una coda per oltre due ore. Fu un viaggio davvero pesante e una volta a Torino cambiai l’acqua ai pesci prima ancora di farmi una doccia. L’indomani sarei andato al mare, dai miei genitori. Li sapevo che avrei trovato il luogo dove lasciare i due amanti nel loro degno regno. Mio padre aveva in giardino due vasche, capienti, dove saporite larve di zanzara si replicavano in abbondanza. Quello era il destino dei due miei compagni di avventura, quella era la ragione per cui un bel giorno, un mese prima, il giostraio me li aveva affidati. Il destino, il loro destino, stava per compiersi. Quando li liberai nella vasca si fermarono un attimo. Mi piace pensare che si fossero girati un momento a guardarmi, per ringraziarmi. Anche loro desideravano un rifugio come quello, per tutta la loro vita. Beh, che lo crediate o no vissero in quel luogo meraviglioso per oltre dodici anni, diventando grandi come carpe. Quando andavo al mare mi sporgevo sul bordo, portando con me sempre un po’ di mangime di cui andavano matti. Salivano in superfice, boccheggiando proprio come avevano fatto quella prima mattina. La loro vita ebbe il corso che spetta ai pesci e a distanza di pochi giorni morirono, come è giusto che sia, naturalmente. Se ne andarono assieme, assieme erano venuti. Io ero servito a loro affinché vivessero la vita libera che ogni creatura ha diritto e a me regalarono il grande piacere di aver mantenuto la promessa con il mio occasionale oracolo, il giostraio. Perché nella vita non esistono piccole promesse o grandi promesse, esiste la parola data e con lei, il rispetto della vita. La storia di Lancillotto e la sua Ginevra resterà sempre con me e, ora, anche con voi. Buonanotte…
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