Pirillo, una storia vera, come tante altre

pirilloDi mia madre non ho un grande ricordo! Per carità, non pensate male, Eravamo cinque fratelli, tre maschi e due femmine e lei era indaffarata tutto il giorno a pulire culetti, dar da mangiare a noi e procurarsene per lei. Sono nato,anzi siamo, in un’auto capovolta all’interno di uno sfascia carrozze, nella periferia di Torino. Lalia, questo era il nome di mia madre, si era rifugiata li dopo essere stata abbandonata in autostrada in un pomeriggio di luglio, alla vigilia delle ferie. Per una disattenzione del suo padrone, ai giardinetti durante la passeggiata del pomeriggio, era sfuggita al controllo e un pastore tedesco che stava girovagando libero, mentre il suo padrone chiacchierava con alcuni amici, si accorse subito del suo profumo irresistibile; era in calore. Lei, Lalia, cercò di evitarlo, anche se quel bell’esemplare elegante e giovane non le fosse indifferente. Lo aveva notato altre volte; il pelo fulvo e sano, lo sguardo fiero. Sicuramente un cane addestrato, di quelli che son cresciuti in allevamento, college per purosangue dal pettigré immacolato. Non aveva bisogno del guinzaglio, seguiva attentamente ogni passo del suo accompagnatore concedendosi solo qualche sosta per marcare il territorio sul tronco dei platani che contornavano il parco. Le persone che incrociava non mancavano di fargli i complimenti e lui, pur fissando il suo padrone, si lasciava carezzare pazientemente così come una star del cinema si sofferma a firmare autografi per strada. Lei lo guardava con ammirazione, abbassando lo sguardo quando i loro occhi si incrociavano e se, come successe qualche volta, lui si avvicinava per annusarla, lei si lasciava corteggiare mantenendo comunque sempre un certo distacco. Quella volta però la forza della natura era al di sopra di ogni volontà, anzi era la volontà stessa, e come lui si avvicinò per cercare di accoppiarsi, l’istinto ebbe la meglio sulla ragione, lasciando che la coprisse. Fu un momento, un attimo, ma molto intenso e sufficiente a lasciar traccia in lei dei suoi potenti geni. Lalia tornò di corsa verso il suo padrone che la stava chiamando a gran voce. Non poteva certo capire, quell’uomo, quale tempesta di emozioni la stava attraversando. Non era un uomo sensibile, aveva acconsentito di prenderla al canile per compiacere al desiderio della figlia, adolescente distratta che per un capriccio o per moda, desiderava un cane. Come sempre accade, chi senza alcuna conoscenza del mondo animale si porta a casa una creatura pelosa, si dimentica che questa ha appunto i peli, che fa pipì e cacca come noi. Che ha bisogno di passeggiare, correre, giocare. Vivere insomma, come la natura ha per lei programmato. E di seguirci quando andiamo in ferie, esattamente come un membro della famiglia. Lalia era incinta, una aggravante che peggiorò la sua posizione in casa definitivamente. Dopo accese discussioni tra i suoi proprietari, alle quali assistette sdraiata nella cuccia preoccupata, una mattina uscì per la solita passeggiata, accorgendosi da subito che qualcosa era cambiato. Lui, Giacomo, era diventato scontroso. Non si diresse verso il portone per uscire in strada, ma scese in garage direttamente, strattonandola con il guinzaglio. Non capiva, non riusciva a capire come mai ci fosse questa variazione di itinerario e perché per farla salire in macchina dovesse essere così brusco. Forse, ma lei non poteva saperlo, in qualche angolo della sua coscienza un angelo e un diavolo stavano discutendo. Si diressero verso la tangenziale, poi in autostrada e all’altezza di uno svincolo a cui lati si distendeva un’ampia campagna coltivata a meliga, arrestò la macchina, facendola scendere. Lalia annusò l’aria e poi il terreno. Odori nuovi, insoliti. Non che le dispiacesse, l’idea di esplorare luoghi sconosciuti, tutta quell’erba, la rallegrava. Chissà, pensò, forse Giacomo ha deciso di cambiare itinerario. Libera, senza legami, iniziò a scendere verso il campo coltivato, annusando tra l’erba alla ricerca di un luogo dove fare la prima pipì del mattino. Fu l’inconfondibile rumore dell’auto che ripartiva che le raggelò il sangue. “Come, Giacomo se ne è andato, dimenticandosi di me? Come è possibile, ma non mi aveva seguita?”. Iniziò a correre su per il pendio e poi, abbassandosi sotto il guardrail, lungo il bordo dell’autostrada mentre l’odore della sua auto, della sua casa e del suo padrone svaniva inesorabilmente. Correva a più non posso, terrorizzata dai camion e le altre macchine che la sfioravano indifferenti. Non aveva idea di quale fosse la strada per tornare indietro e poi quella pancia, oramai diventata ingombrante, non le permetteva di muoversi come voleva. Rischiò più di una volta di farsi investire, risucchiare sotto le ruote. Era stremata, la lingua a penzoloni e tanta sete. Il sole era oramai alto nel cielo e faceva un caldo terribile. Sentiva la gola asciutta, la lingua secca e pesante. Pensò che Giacomo sarebbe ritornato a prenderla, non appena si fosse accorto che non era in macchina. “Certo, di sicuro sarà così. Arriva a casa, apre il portellone per farmi uscire e non trovandomi torna di corsa a cercarmi. Ne sono certa”. Scese nuovamente tra l’erba, almeno li faceva un po’ più fresco e quei missili rombanti che la sfioravano non costituivano un pericolo. Si accucciò, addormentandosi. Si svegliò dopo poco, terribili sogni avevano abitato il suo sonno. Vedeva Giacomo con un bastone che la percuoteva, mentre moglie e figlia indifferenti guardavano la televisione. Un ricordo, lei cucciola in casa sgridata perché aveva sporcato a terra, in salotto. Giacomo con un giornale la maltrattava spingendole il muso nella sua pipì. Se lo era dimenticato, come aveva dimenticato tutti i dispetti subiti da Gloria, la piccola capricciosa. Ora però quei pensieri le affollavano la mente, come incubi a occhi aperti. Capì presto che Giacomo non sarebbe più tornato indietro, anche se non riusciva a farsene una ragione. Camminò lungo il sentiero, costeggiando una rete metallica in cui trovò un grosso buco. All’interno del recinto c’erano molte macchine abbandonate, ammucchiate una sull’altra. Alcune capovolte avevano il soffitto pieno di acqua come piccole piscine. Acqua! Finalmente… Bevve a lungo, aveva una sete terribile. Non c’è nulla di più doloroso per un cane che rimanere senza acqua. Non ha una pelle con la quale sudare e abbassare la temperatura del corpo. E’ attraverso l’umidità che evapora dalla lingua che si rinfresca e una lingua secca non è certo d’aiuto. Aveva anche fame, tanta. Cercò li intorno, tra quei rottami però non c’era nulla di commestibile. Sperava nelle sue crocchette, ma anche solo un tozzo di pane. Alla fine della ricerca le sarebbe andato bene anche la carcassa di un piccione morto, ma non trovò nulla. Passò la notte dentro una cuccia improvvisata, il sedile di un’auto rovesciata su un fianco i cui interni erano smontati, alla rinfusa. Il ventre le doleva, forse aveva corso troppo, era davvero sfinita. La mattina presto sentì dei rumori: “E’ Giacomo, mi sarà venuto a prendere…” pensò, sporgendo il suo naso fuori dal finestrino rotto, annusando con cura ogni odore che la brezza portava. Nulla, nulla che riconoscesse, ma solo il vociare di uomini sconosciuti sempre più vicini a lei. Si rintanò impaurita, paura che diventò terrore quando un infernale macchinario cominciò, manovrato da un ragazzone, iniziò a sollevare le auto per lasciarle cadere in un cassone dove venivano accartocciate. Quando sentì scuotere il suo rifugio si spaventò terribilmente ed uscì abbaiando cercando rifugio altrove. Fu allora che un altro operaio si accorse di lei. “Un cane, c’è un cane tra le auto….Fermati!” disse al manovratore della gru. Il rumore cessò, anche il ragazzo scese. Cercarono tra le lamiere, ma di Lilia non c’era traccia. Uno di loro entrò nella baracca al limite del campo. Il cane li osservava attraverso le fessure del suo nuovo rifugio, tremava di paura, come non ne aveva mai avuta…

Il destino non si annuncia mai, fa il suo corso, sarebbe potuto accadere qualsiasi cosa. L’uomo che era nel capanno poteva uscire con un bastone e questo avrebbe dato ragione all’incubo di Lilia, oppure con un fucile o chissà cos’altro. Invece venne fuori portando in mano una ciotola. Alcuni avanzi del giorno prima, ritagli di arrosto profumato, pezzi di pane secco e qualche fetta di prosciutto ormai scaduto dimenticato nel frigo. La posò al centro del cortile, mettendosi poi a lato. Per la sventurata cagnetta il profumo di quel cibo diventò un richiamo irresistibile, ma nonostante questo non voleva lasciare la sua dimora. Se non si poteva fidare del suo padrone come avrebbe potuto fidarsi di uno sconosciuto. Poi i pensieri le si confusero nella mente e, lentamente, uscì allo scoperto, facendo due passi avanti e uno indietro, con la coda tra le gambe. Sospettosa. Tutto era immobile, gli uomini la guardavano e lei scrutava i loro sguardi, volgendo il capo verso quell’inaspettato banchetto. Sembrava camminasse sulla superfice di una palude instabile. Un passo dopo l’altro, lentamente, si avvicinò alla ciotola e più ne era in prossimità e più l’odore diventava prepotente. Divorò il contenuto avidamente e, una volta finito, leccò con cura ogni angolo del contenitore, tenendolo fermo con una zampa. Ogni molecola di cibo venne accuratamente gustata, le sembrava di non mangiar più da mesi. Anzi, forse non aveva mai mangiato in vita sua nulla di più saporito di quel pasto. Era quasi commossa e una volta finito il pasto, alzò il capo, non sapeva cosa pensare. Chi erano quei due uomini che la osservavano, si poteva fidare di loro?

Sentì una fitta al ventre, l’istinto le disse che era arrivato il momento, di li a poco il meraviglioso evento che la natura riserva agli esseri viventi sarebbe accaduto. Lei avrebbe voluto tanto essere nella sua casa, nella sua cuccia, accudita da Giacomo, dalla Marta e da quella antipatica ragazzina con le trecce alla quale, comunque voleva bene. Si era immaginata di partorire accompagnata dalle carezze dei suoi cari, ascoltando le voci emozionate e concitate che contavano i cuccioli, man mano che uscivano. Invece tornò nel suo rifugio. Sapeva cosa fare, pagine non scritte ma ben impresse nei suoi pensieri profondi l’avrebbero guidata in quel miracolo della natura, la nascita della sua prima cucciolata. Iniziò il travaglio e in meno di mezz’ora, uno dopo l’altro, uscimmo noi primogeniti di quel gran signore, pastore tedesco e la spinona randagia e sfrattata, mia madre. Nei giorni successivi il piazzale venne svuotato progressivamente delle carcasse d’auto, solo la nostra rimase al suo posto. Ogni mattina una ciotola piena di prelibatezze compariva nel piazzale, ogni giorno un po’ più vicino alla cuccia. In un’altra acqua fresca e pulita. Eppure nonostante questo, mia madre non riusciva a cancellare il dolore dell’abbandono e la sua fiducia negli uomini fu probabilmente per sempre disillusa. Dico probabilmente perché io non la vidi più, ne lei né i miei fratelli. Una mattina, uscendo in avanscoperta, raggiunsi quegli uomini nel capanno. Erano i miei primi passi in autonomia e a me quel rifugio arrugginito andava davvero stretto. Uno di loro mi prese in braccio esclamando: “Guarda qui che pirillo, è un maschietto!”. Ecco, mi presento, Pirillo. Questo diventò il mio nome. Non che per noi cani il nome sia importante, anzi non ne comprendiamo neanche il significato se non quando viene usato da richiamo. Per noi quello che davvero conta è l’odore. Non ci chiediamo, tra di noi, come ti chiami ma che odore hai. Inutile dirlo ma ci possiamo riconoscere al buio o in mezzo ad altri cento. Basta un’annusata. E fu il profumo intenso di quelle mani che mi accarezzavano, mentre messo a pancia in su, sulle ginocchia di Mario (così si chiama l’uomo), che si impresse nella mia mente come la certezza di un futuro migliore. Cominciai a fare dei grugniti degni di un cucciolo d’orso. Ridevano tutti e due. La sera stessa, senza poterli salutare, lasciai al loro destino madre e fratelli. Per me, Pirillo dal sangue blu (al 50%), iniziò la vita con gli umani. In una casa semplice, calda e piena di legni da rosicchiare, vicino alla stufa pronta per l’autunno che stava arrivando. La mia nuova mamma aspettava anche lei un cucciolo, d’uomo. La sera durante l’inverno, poi, mi accucciavo sul tappeto guardandola cucire vestitini mentre chiacchierava con Mario, facendo progetti. Non capivo le loro parole ma sapevo, ne ero certo, che ci sarebbe stato per me un posto in quella casa per tutta la mia vita e anche quando, potendo, si sarebbe andati in ferie, io sarei stato con loro. E il rumore di quelle assordanti auto che sfrecciano veloci in autostrada lo avrei sentito, certo. Ma seduto nel mio posto riservato, nel bagagliaio dell’auto, mentre nella culla sul sedile posteriore il cucciolo d’uomo iniziava i suoi primi grugniti, come un piccolo orso senza peli.

Pirillo è ora un cane adulto, felice. Per lui gli uomini sono amici fidati.

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