Mai cambiare nome ad una barca

1921 - Rimorchiatore 'Lipari' Chi va per mare lo sa, scaramanzia, fortuna e porta rogna sono nei pensieri di ogni marinaio, anche se non lo danno quasi mai a vedere.
Io ho sempre pensato che quei larghi pantaloni di cui sono dotati i militari della Marina abbiano tanto spazio per potersi “toccare” in caso di necessita senza farsi vedere.
Piccoli rituali, mezze parole, un cornetto legato al portachiavi, due giravolte prima di uscire dalla cabina. Questo, badate bene, vale sia per i marinai della Marina Militare che per i civili, è una tradizione traversale.
Anche nel diporto succede lo stesso: la prima regola è non cambiare il nome ad una barca, quando la si acquista usata. Pena disgrazie a non finire. Io non so quanto questa teoria sia stata verificata nella casistica degli incidenti nautici (mmhh, già questa parola non porta bene), fatto sta che io conosco solo la storia di Filippo, un caro amico di tanti anni fa.
Era tipografo, in quel periodo gli affari andavano bene e riuscì a comperare una bella barca a vela di quasi dieci metri. Il sogno di una vita.
Quando andò con la moglie, Daniela, a vederla erano entrambi emozionati. Ben tenuta, vele appena cambiate, un pozzetto dominato da una lucente ruota del timone. Uno splendore. Ma il sorriso si spense immediatamente sul viso luminoso di Daniela che si rabbuiò all’istante.
Sulla poppa e sul salvagente in bella mostra compariva il nome della barca: “Mariella”. Nulla di male se non che quello era il nome della ex di Filippo; solo pronunciarne il nome per lei era come accarezzare un gatto contropelo. E lei più che un gatto era davvero una tigre.
A Filippo però la barca piaceva proprio e fece solenne promessa di cambiare il nome appena fatto il contratto di acquisto. Trasgredendo così alla prima regola contro la “scalogna” in mare.
Giunse finalmente il giorno della prima uscita, sulla poppa e sul salvagente di rispetto troneggiava un imperativo “Daniela Mon Amour” che ribadiva a tutti chi fosse la regina di quel natante.
Mollati gli ormeggi e dato un po’ di motore, Daniela si mise al timone portando l’imbarcazione verso l’uscita del porto, lasciandola scorrere rapida a lato della murata di un grosso ed alto yacht.
Ma appena fuori dal ridosso dell’enorme imbarcazione una sventata fece sbandare la piccola vela e Daniela perse l’equilibrio cadendo rovinosamente a mare.
Prima che Filippo riuscisse a comprendere l’accaduto e risalire dal sotto coperta la barca si infilò tra due motoscafi ormeggiati rovinando contro la banchina.
Il pulpito di prora si accartocciò sacrificandosi nella speranza di salvare lo scafo che comunque uscì danneggiato dall’impatto. Filippo stava uscendo dal boccaporto, cadde all’interno della barca trascinandosi dietro lo scolapiatti nel quale si stavano asciugando le nuove stoviglie su cui spiccava, scritto in perfetto stile inglese, Daniela Mon Amour.
Il comandante del porto, che conosceva quella barca, si diresse verso loro in soccorso. Scuotendo la testa; di storie così ne aveva viste tante. Nella Marina Militare queste cose non accadono, mai ci si sognerebbe di cambiar nome ad un’imbarcazione, fosse anche soltanto una scialuppa di salvataggio. Piuttosto si disarma e si demolisce.
Però quando in Accademia Navale, Antonello Cimelio, aspirante guardiamarina dall’aria cupa chiese a Domenico Pastri di giocare a scacchi, eravamo in molti presenti. Domenico rispose che aveva già promesso di giocare a tennis ad altri. Antonello, quasi fosse una profezia, lo apostrofò dicendogli: “Ma lascia perdere che ti fai male!”.
Ognuno di noi ricordò negli anni a venire quelle parole, Domenico Pastri durante la partita si ruppe l’avambraccio e portò per un mese ed oltre il braccio al collo. Qualche mese dopo Antonello Cimelio disse a Parodi Marco, mentre questi saliva sulla sua 1100 Fiat alla volta di Genova:”Ma sei sicuro di arrivare con quel catorcio?”. Scese il silenzio nel piazzale antistante l’Accademia.
Quasi fosse una condanna la macchina del Parodi non varcò i confini di Livorno, fondendo irrimediabilmente il motore.
Lentamente, come olio versato, la notizia si diffuse nell’Accademia e di lì, giorno dopo giorno, raggiunse ogni Capitaneria della Marina, compreso lo Stato Maggiore.
Il giorno in cui vennero date le destinazioni, per tutti fu una festa. Molti raccomandati riuscirono a raggiungere Capitanerie vicino casa.
Chi amava imbarcarsi fu destinato a prestigiosi incrociatori, chi come me aveva scelto l’avventura, venne mandato nei mari del sud.
Per Antonello Cimelio, il cui nome e cognome è già una disgrazia, fu un vero problema: nessun comandante lo voleva a bordo.
Le Capitanerie di tutta Italia avevano espresso il loro diniego, in Accademia neanche a parlarne, non vedevano l’ora che varcasse il portone per uscirne definitivamente.
C’era solo una destinazione possibile, una nave di cui ogni marinaio non osa neanche pronunciarne il nome.
Fu così che venne destinato a “L’Innominabile”, l’incubo di tutte le imbarcazioni della Marina Militare. Il rimorchiatore che viene utilizzato per recuperare le navi in avaria, il terrore di ogni comandante che si rispetti.
Quando, durante la celebrazione del rito di consegna delle destinazioni, suo malgrado, l’ufficiale di turno fu costretto a pronunciare ad alta voce: “Guardiamarina Antonello Cimelio, destinazione “Prometeo, La Spezia” ci fu un fruscio collettivo, duecento e più persone raggiunsero gli “zebedei” con la mano per darsi una scaramantica toccata con la speranza di scacciare ogni malaugurio e traccia di sfortuna. Non seppi più nulla di Antonello Cimelio e tranne questa volta che ho piacere di raccontarvi la sua storia, non ne ho più parlato. Ma vi posso garantire, l’ho fatto con un “cornetto” e tre peperette poggiate sulla tastiera.

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