Sul piano di marmo liscio, variegato da tante piccole sfumature scure, tracce di granito, troneggiava la farina bianca come un vulcano coperto di neve e sulla sommità un cratere scavato dalle mani candide di mia nonna; aveva i bordi frastagliati. Eravamo in cucina, all’inizio di un’estate di tanti anni or sono. La valle del Borghetto era ancora sgombra di case e la terra ovunque coltivata. Ormai la mimosa era stata raccolta e così pure la ginestra. Avevano annunciato la primavera, colorando tutto il panorama di giallo e bianco, lasciandosi cullare dal vento non ancora tiepido, prima che sapienti mani ne raccogliessero i fiori per portarli ai magazzini dove sino ad ora tarda venivano preparati per il mercato. Poi all’alba, riposte in grandi ceste di vimini, venivano caricate sulla corriera, nel suo rimorchio. Alcune donne scendevano a valle, portando il loro carico in testa e il mercato di Sanremo e quello di Ventimiglia si illuminavano di riflessi argentati. Ti svegliavi una mattina e le grandi chiazze che dipingevano la collina erano sparite, via verso destinazioni lontane. Ora, che l’estate era alle porte, in ogni angolo brillava un colore diverso e con lui l’aria si riempiva di profumi. Fiori ovunque, alcuni coltivati in serra per la vendita, altri per dare decoro alle case, ai giardino. La domenica, al cimitero, i sepolcri venivano adornati con i gladioli, qualche sterlizia o i garofani. Le nonne si fermavano per una breve preghiera, poi correvano a casa per preparare il pranzo. Accadeva così che l’aria si profumava di soffritti, dalle finestre uscivano aromi che a noi bambini facevano venire l’acquolina in bocca, ansiosi di trovarci a tavola con i genitori, finalmente lontani dal pensiero del lavoro. Per i miei, spesso, le domeniche erano l’occasione per trovarsi con gli amici, a casa di uno o dell’altro. Avevano conosciuto un tedesco, uno di quelli simpatici e sempre allegri, che abitava a Seborga, in una bella casa con il terrazzo che dava sulla valle da cui si riusciva a vedere, laggiù lontano, il mare. Sapeva suonare molto bene la fisarmonica e come tutti i tedeschi adorava le canzoni popolari italiane. Lui si occupava del vino; aveva amici che producevano un ottimo Rossese, a Dolceacqua, e una cantina con cui fare invidia a molti. Sotto casa, tra le mura di pietra, alla giusta temperatura fresca e costante che piace tanto al vino, custodiva i suoi “tesori”: bottiglie d’annata di ogni regione e conoscendo bene il nostro piacere a pasteggiare con abbondanti bevute, le centellinava, abbondando con il Rossese che nulla aveva da invidiare ad altri vini più sofisticati. Noi portavamo il pranzo. Mia mamma preparava le cipolle ripiene la sera prima, le zucchine in carpione e uno o due “tortelli” ripieni di verdura. Si univano al gruppo “gli Scordo”, amici di vecchia data, una coppia minuta, sempre sorridenti e poi l’immancabile Peppino e “la Taggiasco”, moglie paziente per le innumerevoli marachelle che Peppino sapeva combinare. Lui era stato ferroviere e oramai era in pensione. Andava spesso a caccia sulle montagne attorno a Rocchetta Nervina sino su verso Gouta. Io mi divertivo molto ad andare con lui, nonostante l’età aveva sempre voglia di scherzare e poi come cacciatore non valeva molto. Non perché avesse una mira incerta, ma semplicemente perché non amava uccidere gli animali e solo in poche occasioni lo avevo visto sparare. Basti pensare che un giorno un suo conoscente gli aveva prestato il cane: “Portamelo un po’ a caccia, io non riesco più ad andare perché ho un problema alle gambe. E’ un cane eccezionale e non vorrei che perdesse l’istinto”. Fatto sta che Peppino lo caricò in macchina e una volta sulle alture lo lasciò libero. Con il naso a fil del terreno il cane iniziò a perlustrare la zona, infilandosi nei rovi e tra i cespugli sinché uno splendido fagiano prese il volo. Peppino puntò il fucile, ma senza sparare. Il cane si voltò a guardarlo stupito e riprese a cercare. Un altro volo, questa volta la femmina del fagiano precedente. Stessa scena, fucile puntato ma nessun colpo. Il cane con sguardo di rimprovero si voltò verso Peppino e poi deluso si avviò verso la macchina. Con rassegnazione saltò nel bagagliaio aperto, per lui il cacciatore non era all’altezza. “L’ho deluso” disse Peppino, “andiamo a cercare qualche fungo, che è meglio…”. Quando la sera si tornava a casa i rimproveri de la “Taggiasco” non tardavano ad arrivare: “Sei stato in giro tutto il giorno e non porti nulla!”, diceva. Ma in realtà anche lei era contenta del fatto che il marito non fosse un cacciatore agguerrito. Per i conigli invece la pietà aveva un limite; quelli facevano storia a sé. La Ines (questo era il nome della Taggiasco) li cucinava in modo sublime. Veniva da mio padre in negozio a comperare le olive nere, secondo loro le migliori in commercio. Mio papà le preparava personalmente; aveva due botti di legno in cui le metteva in salamoia, lasciando scorrere un sottile filo d’acqua in modo che queste si lavassero continuamente e l’acqua non stagnasse. Quando poi il procedimento aveva completato il suo termine, le metteva nei vasi di vetro aggiungendo la giusta quantità di sale per poi conservarle al buio nel magazzino sotto il negozio. Ines metteva il coniglio pulito e dissanguato in una pentola, ricoprendolo di vino. Aggiungeva l’alloro e uno o due chiodi di garofano. Restava così nel frigo per un giorno affinché perdesse quel po’ di sapore di selvatico e la carne si impregnasse del buon sapore che il vino sapeva cedere. Il sabato sera, poi, metteva in una casseruola alcuni spicchi di aglio, un po’ di olio d’oliva comperato a Vallebona e faceva rosolare i pezzi di carne sin quando non iniziavano a dorarsi. Aggiungeva quindi le olive, una o due foglie di alloro e il vino, a piccole dosi, facendolo consumare a fuoco lento. Ricordo ancora oggi perfettamente il profumo che sfuggiva dal coperchio.
Mia nonna prese una caraffa d’acqua versandola lentamente nel cratere in cui si formava un piccolo lago pronto a tracimare, trascinando con sé la farina lungo il bordo immacolato, come una colata di lava. Lei con le mani rinforzava i bordi iniziando poi ad impastare la farina, aggiungendo acqua via via. Mi piaceva guardarla, i suoi movimenti erano precisi, collaudati, esperti. Lentamente la farina si amalgamava con l’acqua per formare un’impasto che aveva bisogno di essere manipolato a lungo. Poi con il mattarello, dopo aver cosparso il marmo di farina, la stendeva per tornare ad impastarla, infinite volte. Alla fine la distendeva rendendola sottile e con il coltello la tagliava in rettangoli, di misura con la teglia di alluminio leggermente oliata. Ne distendeva un primo strato, alzandola sui bordi e facendola aderire bene. Poi gli versava il contenuto di una pentola, le zucchine appena scottate con un po’ di soffritto in cui aveva, quando erano diventate fredde, versato due uova sbattute in una terrina. Disteso l’impasto in modo uniforme, lo ricopriva con un altro velo di pasta avendo cura di arricciarlo con quello sottostante ai bordi. , con la forchetta, faceva una serie di buchi sulla superfice, in modo che durante la cottura l’aria all’interno potesse uscire senza gonfiare lo strato superiore. Era il momento del forno che, già scaldato per tempo, completava il capolavoro. Io aspettavo pazientemente che dal vetro annerito si vedesse imbrunire la superfice, segno che la cottura era giunta al termine. Di lì a poco il “tortello” sarebbe uscito dal forno e, una volta raffreddato, una piccola fetta di assaggio era riservata a me. Poi la teglia veniva coperta con un panno pulito e lasciata riposare, l’indomani avrebbe fatto bella mostra sul tavolo del tedesco.
Mio padre prima di tornare a casa dal negozio, passava in magazzino per prendere uno o due vasetti di pomodori secchi. Anche questi li preparava lui, ma non li metteva in vendita. Erano riservati a noi o a occasioni come queste. Il lavoro per prepararli era tanto e produrne per farne commercio non era conveniente. Lui li comperava freschi da un “calabrese” che veniva al lunedì con il camion per venderli a chi si preparava la “conserva”. Aveva un camion carico sino al telone superiore, un megafono sopra la cabina con cui chiamava a raccolta i clienti. Faceva strano veder mio papà, che aveva un negozio di alimentari, andar da quell’uomo a comperar pomodori. Ma a detta sua, quelli erano i migliori che si potessero trovare. Ne prendeva due casse, alle volte tre. C’era la fila ad acquistare quelle gemme rosse, chi tre casse, chi cinque, alcuni dieci. Prepararsi la conserva per tutto l’anno era una tradizione “meridionale” e nella mia zona, molto popolare, era una attività diffusa nelle case. Grossi pentoloni in cui le pomate venivano “spremute” passandole al setaccio, per toglierne i semi e poi cotte. Infine venivano versate in vasi sterilizzati in acqua bollente e alla fine, dopo esser stati chiusi ermeticamente, ancora bolliti. La pulizia e la sterilizzazione erano fondamentali, pena la muffa o peggio ancora il terribile “botulino”. Mio padre tornava con le due casse di pomodori e li lavava e asciugava, uno ad uno. Poi li tagliava nel mezzo deponendo le due metà sul piano di una cassetta di legno. Faceva così sino a quando tutta la superfice non era coperta, badando bene che le fette non si toccassero tra di loro. Dopodiché li cospargeva di sale grosso, non molto in realtà, e poggiava sopra ad ognuno una foglia di basilico. Ogni mattina, appena il sole caldo dell’estate iniziava a scaldare, li metteva all’aperto in modo che i raggi del sole facessero evaporare l’acqua e ogni sera, prima che la rugiada scendesse, li toglieva per metterli al coperto, in un luogo areato. Così per molti giorni, prestando attenzione a che non prendessero umidità; la muffa era in agguato. Lentamente, giorno dopo giorno, perdevano di volume e si raggrinzivano, diventando rosso scuro. Quando l’essicazione era giunta al livello voluto, li metteva uno sopra l’altro, distesi incrociati, all’interno dei vasetti di vetro, riempiendoli poi con l’olio di oliva. Quasi avessero catturato tutta l’energia del caldo sole estivo, protetti dal sale che ne garantiva la conservazione e l’olio che toglieva ogni traccia di aria, riposavano al buio, pronti per l’inverno. Erano una vera specialità e oggi quando ne acquisto una confezione al supermercato, preparata industrialmente nei forni di essicazione, mi illudo di riprovare le stesse emozioni sapendo bene che si tratta di una pura illusione.
La mattina della domenica ci si svegliava per tempo. C’era da preparare lo zaino e le borse da portare da Massimo, il tedesco. Cipolle ripiene, zucchine in carpione e le torte verdi viaggiavano assieme, quasi appartenenti ad una casta privilegiata. Era importante che restassero in piano, che non venissero schiacciate. Non esistevano ancora quei bei contenitori di plastica con le chiusure ermetiche e quindi si doveva fare molta attenzione a come si metteva a dimora le cose. Vasetti, bottiglie e contenitori di vetro venivano avvolti in carta di giornale affinché non si rompessero nel viaggio e messi in un vecchio zaino militare. Quando tutto era pronto ci si distribuivano i pesi; io portavo in spalla una piccola cartella a tracolla con pesi proporzionati alla mia età. L’appuntamento era in piazza con “gli Scordo”, Peppino e Ines. Puntuali anche loro, con borse e zainetti, ci si avviava per la strada sottana che porta a Borghetto basso per poi salire, attraverso una mulattiera, verso Sasso. Ricordo mio padre con il passo dell’alpino, reminescenza del suo periodo militare; era sempre il primo. Spesso cantava “Quel mazzolin dei fiori” o “Il Piave mormorava”. Il suo buon umore era per me felicità; ero abituato a vederlo impegnato nel lavoro sino a tardi, con poco tempo per le distrazioni. Anche mia mamma era di buon umore, chiacchierava con la Ines o la Scordo. Peppino a cui le gambe non mancavano teneva il passo, accendendosi ogni tanto una sigaretta di trinciato forte che riusciva a confezionare nonostante il passo a marcia veloce. Raggiungere Seborga non era così semplice; sentieri a volte anche irti toglievano il fiato e qualche pausa era d’obbligo. C’era a tal scopo uno zainetto a parte con una bottiglia di vino e una d’acqua, oltre qualche grissino “stirato torinese” comperato in Piemonte, ristoro per riprendere energie. Quando si arrivava allo stradone che unisce Seborga a Bordighera, alle porte del Principato, il desiderio di mettere le gambe sotto al tavolo sul grande terrazzo era prepotente in ognuno di noi. Come ogni volta la Ines diceva: “Dumenega vegnimu cun la macchina”, soffiando come un mantice. Ma in realtà a tutti piaceva questa scampagnata, per tanti motivi. La compagnia, lo spettacolo dell’entroterra in piena fioritura, la possibilità di incontrare una volpe, un tasso distratto e, come prima cosa, l’opportunità di smaltire anzitempo tutte le calorie e il vino che avremmo ingurgitato a breve.
Massimo sulla porta ci accoglieva con un sorriso; “La mia casa è la vostra”, diceva. Salivamo sulla terrazza e le donne si sbrigavano ad apparecchiare mettendo al centro le vivande. Ines in cucina dava una scaldata al coniglio mentre sul fuoco l’acqua bolliva per cuocere le tagliatelle fatte in casa dagli Scordo. “L’acqua è già salata?”, diceva Massimo mentre l’eccitazione per il pranzo imminente saliva. I profumi che uscivano dalla pentola, dalle teglie scoperte dal panno, dai vasetti aperti rendeva tutti impazienti. Frettolosamente ci si sedeva a tavola, il vino colorava i bicchieri. “Brindisi, brindisi…” implorava Massimo, “prima di tutto un brindisi, alla vita!”. Alzavamo tutti il bicchiere al cielo, anche se il mio era pieno di acqua appena sporca di vino. Tanto sapevo che di lì a breve il controllo dei miei movimenti andava a scemare e, lentamente, nessuno si occupava più di ciò che facessi. Ricordo quelle giornate serene come uno dei momenti più belli della mia vita. Ricordo i bianchi denti di mia mamma quando rideva per le barzellette un po’ osè di Massimo, il canto di mio padre, la sua voce possente alimentata dal Rossese, ricordo la Ines che rideva a crepapelle tenendosi la pancia implorando di smettere perché se la sarebbe fatta addosso. Ricordo Peppino, che mi strizzava l’occhio, storcendo i suoi baffi ispidi come le setole di un cinghiale, mentre mi versava un po’ di vino puro, ricordandomi che “il sangue è rosso, mica bianco come l’acqua”. Ricordo il sole che iniziava a calare mentre tutti si cantava spensierati, pronti per ripartire a piedi e rientrare a casa. Non c’è più nessuno di loro, gli anni, la vita a cui tanto si è brindato sono implacabili. Inesorabilmente uno dopo l’altro hanno lasciato questa terra, forse ritrovandosi in qualche tavolata tra le nuvole per un banchetto che ha il sapore dell’eterno. Ora che nostalgicamente ripenso a quei momenti, quando vado a Seborga timidamente mi avvicino alla casa di Massimo. E’ stata venduta, ristrutturata. Sul grande terrazzo è stata fatta una veranda, la piccola siepe che chiudeva il contorno del giardino è stata sostituita da una vermiglia bouganville. Tutto è cambiato, perché nella vita nulla è mai uguale a ieri. Eppure se chiudo per un attimo gli occhi e mi metto ad ascoltare, sento ancora quelle risate, quei canti, quei profumi. Perché dentro al nostro cuore ogni attimo vissuto ha il suo posto e noi siamo la somma di tutto quello che è stato. Brindo alla vita, finché questa decide di stare con me.