Gulliver, “Il preferito”

La GattaraGulliver è il mio preferito… quello laggiù, che sta arrivando al galoppo…” Così dicendomi iniziò a riempire le ciotole con il pastone che aveva preparato, portandolo ben nascosto in una pentola riposta nel carrello della spesa. Marisa aveva raccolto alcuni coperchi di alluminio con cui “apparecchiava” la sua mensa improvvisata e a fine pasto le sciacquava alla fontana dei giardinetti, per poi nasconderli in un cespuglio poco lontano. “Un giorno non li ho più trovati, qualcuno si era preso la briga di gettarmeli via… ma non mi conoscono, passando al cantiere in fondo alla via ne avevo recuperato altri”. Gulliver si avvicinò sospettoso, c’ero io, un intruso. Si strofinò sulle gambe di Marisa, salutandola e poi restò a fissarmi. “Deve averne viste di tutti i colori, ‘sto povero micetto” mi disse servendogli i bocconi migliori. “Quando è arrivato aveva il pelo rovinato e tante escoriazioni. No, non erano i segni di un qualche combattimento per una gattina in calore, erano ferite fatte da umani, se così si possono chiamare”. In effetti sul capo aveva alcune chiazze senza peli e probabilmente non gli sarebbero più ricresciuti. “Vedi, ci sono persone che hanno piacere della sofferenza altrui, soprattutto di chi è diverso, debole. Non importa che sia un gatto, un cane, oppure un clochard o uno straniero. Non c’è un limite all’abisso che vive nel loro animo. Sai, io credo che in quel momento, quando si lasciano andare alla violenza, non vedono chi hanno di fronte; vedono riflesso nel debole la loro parte che non accettano, il bambino che è in loro e che non ha ricevuto carezze, sorrisi, quando era tempo. Si accaniscono verso l’ingiustizia del vuoto affettivo, in quella parte sofferente che rifiutano di sé e che pensano di annullare infliggendo sofferenze altrui. Diventano carnefici perché son stati vittime e continuano ad esserlo, per un seme infestante che radica in loro. Chiunque di noi abbia avuto una nonna accogliente, una mano calda che gli rimboccava le coperte, un bacio prima di prender sonno, non può che restituire ciò che ha avuto. Io sono cresciuta con i gatti in casa. Ricordo quando bambina portavo Minù di nascosto nella mia camera e la nascondevo sotto le coperte. Quel corpicino morbido che stringevo a me, il sottile ma profondo tremolio delle sue fusa e quel musetto soffice che si lasciava accarezzare dolcemente. Ogni volta che uno dei miei “randagi” si avvicina torno un po’ a quei giorni, quelle sere. Mi ricordo il caldo della stufa a legna, la pentola del minestrone che cuoceva mentre la nonna impastava la farina, per fare il pane. L’atmosfera incantata del focolare domestico, rassicurante, e le sue parole, i racconti della guerra, le fatiche per tirare avanti. Il nonno che tornava dalla campagna stringendo sotto il braccio le verdure raccolte. Il suo profumo di tabacco mentre si chinava a darmi un bacio fuggevole sulla guancia e un buffetto a Minù, che alzava per un attimo il capo a guardarlo, per poi posarlo nuovamente sulle mie gambe, godendo delle carezze e del tepore del fuoco. I racconti erano come musica, io raggomitolavo le gambe aspettando cena. Ero felice. Accolta, amata, protetta. E’ stato il regalo più prezioso che abbia ricevuto dalla vita. Mio papà e mia mamma non c’erano più, la guerra, quella maledetta. Eppure io ero felice comunque. Il cassetto del bene, quello che avevo ben nascosto in fondo al cuore, era pieno. Ora, quando incrocio gli occhi infelici, so che dentro di me quel cassetto inesauribile è pronto a regalare agli altri un briciolo di serenità”. Accarezzò dolcemente il suo coccolone e lui, Gulliver, alzò la coda in segno di ringraziamento, pur sempre tenendosi in guardia da me. “Sai perché quando accarezzi un gatto e arrivi al fondo lui alza la coda?”. “No”, risposi, aspettando una qualche spiegazione complessa. “Per dirti che è finito e, prego, ricominciare da capo!”. Rise di gusto; attorno alle ciotole c’erano ora otto gatti che pasteggiavano gustosamente. Messi in tondo, a raggiera, sembravano comporre due ingranaggi i cui denti si intersecavano. Ognuno aveva il suo posto, stabilito da una loro tacita intesa, legata a chissà quale equilibrio. “Vedi”, replicò Marisa quasi avesse inteso cosa stessi pensando, “Romeo non si mette mai a fianco di Gelsomino, non sono molto amici. Principessa invece è sempre a lato di Gelsomino ma vuole vicino anche Brufolo, che non ama cibarsi nella stessa ciotola di Schizzo. Lui però vorrebbe stare a fianco di Ettore che non sopporta Gulliver… Ridi eh? Eppure è così, io li conosco molto bene. Mi sembra quasi di conoscere i loro pensieri. Vedi, credo che i gatti sia davvero venuti da un altro pianeta. Ognuno di loro nasconde una verità, un assoluto. Un sogno, un pensiero che rincorrono all’infinito sino a quando non trovano un umano disposto a servirli, come sono coscienti di meritare. Tu mi dirai, cosa danno loro in cambio? Un cane si sa, ti segue anche nel fuoco se è il caso. Sei la sua unica ragione di vita. E’ nel dna, nella legge arcaica dei lupi, del branco. Il gatto no, non è così. Lui accetta le tue coccole per sé, se gli aggrada. Ma ti porta la chiave per scoprire un mistero, per aprire una porta che altrimenti cercheresti invano di aprire. Lui ti sceglie, perché tu hai bisogno di lui. E nella sua essenza, nel suo profondo, vive quella parte di te che cerchi ogni giorno, che forse hai dimenticato distraendoti nelle pieghe dell’esistenza e che lui è in grado di svelarti, giorno dopo giorno. Questo è Gulliver per me, ad esempio. Ogni mattina quando vengo con il cibo, lui mi porta in regalo un tassello, una tessera del mio io. E io torno in pace con me stessa. Vedi, se ogni persona trovasse il suo gatto, se imparasse a guardare l’universo attraverso i suoi occhi, vedrebbe la luce dell’esistenza, il colore della vita, tutto quello che c’è di vero, al di là delle apparenze. Se quelle anime in pena, scellerati, che offendono, feriscono e maltrattano gli animali, cercassero dentro il loro sguardo quella parte di sé che è stata strappata, divelta, umiliata o ignorata, potrebbero ricostruire lentamente la felicità che diversamente non raggiungeranno mai”. Si era fatto tardi, dovevo andar via. Salutai Marisa, lasciandola con un arrivederci mentre metteva gli ultimi avanzi della pentola nella ciotola, quella dove mangiava il suo Gulliver. Provai anche ad accarezzarlo un attimo, ma i suoi occhi felini e severi mi dissuasero. Non era il mio gatto, non c’era una parte del mio mistero racchiuso in lui. Per lui ero uno dei tanti che avrebbe potuto fargli un torto.

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