“Il Diario”, lettura a tre voci per la Giornata delle Donne

 

 

Martha, una giovane adolescente riceve da Marisa, la sua professoressa, un diario prezioso; la storia della sua vita e quella di sua nonna. Un percorso di vita tra piccole e grandi conquiste per un destino che accomuna queste tre donne.

“Oggi per me è festa, è un giorno doppiamente importante.
Si, oggi, 8 marzo 2017 compio sedici anni.  Proprio  nella Giornata della Donna. Questa sera uscirò con le mie amiche, andremo a cena, a mangiare il sushi ma a pranzo ho festeggiato il compleanno con i miei genitori, che figo, mia mamma aveva preparato come ogni anno la torta “mimosa”. C’era mimosa ovunque, il suo profumo mi inebria da quando sono piccola, da quando (avevo otto anni), mio padre mi ha spiegato quanto sia ricco di significato questo giorno. “Sei una donna Martha, nata in un giorno molto importante per le donne.”

 Importante per che cosa, papà? gli chiesi. 

I miei genitori si sono conosciuti proprio negli anni in cui la lotta per l’emancipazione delle donne si esprimeva in piazza, al lavoro, in ogni luogo. Mi hanno raccontato che il primo bacio se lo sono dati mentre reggevano uno striscione, durante un corteo.  Mai più avrebbero immaginato che nascessi io, proprio in quella data e che fossi femmina.

Spesso mi dicono “fatti rispettare, rispetta gli altri, ma prima di tutto rispetta te stessa.”

Anche Marisa, la mia insegnante di lettere delle medie, sorrise quando seppe che sono nata l’8 marzo. “E’ una data importante anche per me sai?” mi disse, “pensa, l’ho scelta per le mie nozze”.

Mi piaceva Marisa, per me è stata e lo è tutt’ora, un mito. Una donna sicura, decisa ma allo stesso tempo dolce. Una giusta come non ce ne sono molte.  Anche io piacevo a lei.
L’ultimo giorno di scuola mi fermò all’uscita. Mi prese le mani e ripeté quella frase che ho sentito dai miei tante volte: “Martha fatti sempre rispettare, tu vali. Ma soprattutto impara a rispettare te stessa”.  Così dicendo mi mise in mano un libro, un diario un po’ sgualcito, dalle cui pagine sbordavano ritagli di giornale. Lei lo guardò come, come quando si consegna un bene prezioso. “Io non ho figli, non ne ho avuti. Ma se mai ne avessi potuto avere uno, avrei voluto che fosse una figlia proprio come te. Ti affido queste pagine su cui ho riso ma anche pianto . Il fedele compagno della mia vita. Ma non solo della mia. Sai? Anche mia nonna Maddalena gli ha gelosamente confidato i suoi pensieri, molto tempo prima. Per lei l’8 marzo è stato l’ultimo giorno della sua vita, eppure ha lasciato questa terra con il sorriso. Ora è tuo Martha, portalo con te, come fosse un testimone, fanne buon uso”.
“Grazie Prof” la salutai, ma lei era già lontana.

Si allontanò rapida senza più guardarmi e dopo quel giorno non ci siamo più incontrate, ma lei dal mio cuore non se ne è mai andata. Spesso lo prendo in mano, questo diario, e ne leggo una pagina la sera, prima di andare a dormire.  Mi piace sfogliarlo come si fa con le riviste dal parrucchiere, partendo dal fondo (ride)

30 ottobre 2011

“Ce l’ho fatta! Oggi ho salito le scale del Liceo Gioberti  felice! Finalmente sono di ruolo, professoressa di lettere. “E Brava Marisa” mi sono detta “Il tuo sogno si è avverato”. Ho conosciuto gli allievi delle prime, sembrano tutti svegli. Che belli questi ragazzi, profumano come le rose. Per un attimo ho pensato al mio primo giorno delle scuole medie. Mamma mia come è lontano. Quante volte ci avevo pensato. Un giorno sarò io alla cattedra e sarò la migliore prof che ci sia. Ma sarò davvero capace, riuscirò a plasmare quella meravigliosa argilla che sarà seduta, lì, di fronte a me? Se penso a quando mio padre diceva: “Ma che bisogno hai di studiare, sei una ragazza, troverai un marito che penserà a te.” Ah, e se penso alla faccia che ha fatto quando gli detto chi sarebbe stato mio marito…

 

6 novembre2000

“Basta, non ne posso più. Un altro anno da supplente, precaria, provvisoria. Non riesci a mettere in piedi un programma, spesso neanche quattro ore di lezione. Vedo i ragazzi disorientati, svogliati, certo, sono precari anche loro.

 Marco questa sera ha preparato lui la cena. A tavola mi ha ascoltato con la sua solita pazienza. “Abbi fede, non temere. Verrà il tuo tempo Marisa. Sei una donna in gamba, lo sai da te, non c’è bisogno che te lo ripeta io.” Mi fissava serio. “Don” gli ho detto (mi piace chiamarlo così), “la fede qui non c’entra, il tempo passa, non vedo la luce davanti a me ma solo nebbia”. Mi ha accarezzato il viso, poi si è alzato a fare il caffè. Invidio la sua fiducia nel futuro, a me alle volte svanisce e mi sembra di non andare da nessuna parte.

 

8 marzo 1994

Sposi! Finalmente sposi! Come dopo una tempesta il sole ha sciolto le nubi e il temporale è oramai lontano. Marco ed io oggi ci siamo sposati. L’ho visto, lì, all’altare vicino a me, mentre mi metteva l’anello nunziale, finalmente vestito da sposo. Aveva gli occhi lucidi e il parroco che ci ha uniti in matrimonio lo guardava severo, ma per conto mio provava una forte invidia. “Se qualcuno è contrario a questa unione, parli ora oppure taccia per sempre!”. Ma nessuno ha fiatato, tutti sono rimasti in silenzio, mia zia Rina con il fazzoletto ad asciugarsi continuamente le lacrime, ancora oggi spero fosse solo per la per la commozione e non per il dispiacere. Mio padre serio, con il capo leggermente all’indietro mentre mia madre, vicino a lui, con le mani giunte guardava nel vuoto. Forse per loro si stava compiendo un sacrilegio, ma nessuno di loro ha fiatato. Quante parole erano state dette prima, tutte quelle che si potevano dire. Ma da quel momento e per i giorni a venire, tutti avrebbero dovuto tacere. In fondo se avevano qualche rospo in gola, l’occasione sarebbe stata quella J

Ora Marco è mio marito, il mio uomo. Lo sto aspettando qui nel nostro letto, il mio Don. Finalmente potremo fare l’amore senza sensi di colpa, senza interrogarci. Come ogni uomo e ogni donna, anzi, anche meglio. Se torno indietro a quando ero ragazza, mai, mai avrei pensato di sposarmi con un seminarista, un uomo pronto a prendere i voti! Non pensavo neanche che sarei mai entrata in una chiesa per sposarmi, se è per quello e neanche avrei mai immaginato che la fede diventasse in realtà così importante, per me.

 

 

 

 

10 agosto 1991

Mi ha riempito di sberle, non era mai successo! Mio padre si è messo ad urlare come un ossesso “ma sei diventata pazza! Con un seminarista, ti sei messa con un ragazzo prossimo a prendere i voti. Marco poi, proprio quello che sarebbe diventato il  sacerdote degli scout. E noi, noi che credevamo foste con i ragazzi per una vacanza di fede, voi, voi…”. “Non oso neanche immaginare” piangendo mia madre si teneva il viso mentre parlava stridula, “che cosa dirà la gente…”. “Aveva ragione tuo padre a dire che era inutile farti studiare”. “Ma, di la verità Martha, è successo qualcosa con Marco?  Cosa abbiamo fatto per meritare questo?”. Non potevo stare zitta, non era più possibile. Io lo amavo, volevo che diventasse l’uomo della mia vita e lui era ormai convinto di rinunciare ai voti e vivere con me per tutta la vita. “Non lo permetteremo mai!” urlò furioso mio padre. Avevo le guance rosse, forse, forse anche un po’ di sangue dal naso. “Non ho bisogno di nessun permesso” . Mi sono messa ad urlare, “non mi importa di quello che pensate. Io decido per me, voi decidete per voi cosa fare!”. Sono uscita sbattendo la porta e ora son qui, a casa di Michela. Non ci torno più in quella casa, non li voglio più come genitori, neanche come parenti. L’ultima frase di mia madre è stata “Ah, se ci fosse qui tua nonna…”.
Già, mia nonna!

8 marzo 1988

Stringo questo diario nel buio della mia camera e mi sembra che una flebile luce esca dalle sue pagine un po’ ingiallite. Cerco il suo profumo, forse, forse qualche goccia della sua acqua di colonia è caduto, mentre scriveva un pensiero o una poesia. Oggi nonna Maddalena se ne è andata, per sempre. Piango in silenzio, cerco di ricordare quel suo ultimo sorriso con cui mi ha salutato. Proprio oggi, il giorno del mio compleanno, il giorno in cui tutte le donne del paese sorridono per un fiore che il proprio uomo, figlio o un amico porteranno a casa, lei, lei ha chiuso per sempre gli occhi, e io ora mi sento davvero sola.

Mi sembra di vederla ancora seduta nel cortile, mentre, mentre accarezzava il suo gatto preferito. Mi scherniva quando mi vedeva frignare e mi ripeteva: “Marisa, tesoro, ricordati che ogni volta che abbassi la testa, ti si alza il sedere!” e ancora
“Non mancare mai di rispetto a nessuno e non farti mai mancare di rispetto ma, soprattutto, impara a rispettare te stessa”.

 

Quando mia nonna mi ha lasciato questo diario eravamo nella sua casa di campagna. Il nonno era mancato da pochi mesi e lei aveva deciso di rimanere in quella casa da sola, non voleva venire in città con noi.

“No, Carlo, non ci vengo da voi”, disse a mio padre. “So badare a me stessa e poi, lo sai, ho un caratteraccio io”. Sorrideva mentre parlava, ma era decisa. “Voi avete la vostra vita un po’ rock, io vivo nella mia, classica”. Era una donna di altri tempi, nonna Maria, ma quando parlava sembrava una ragazza. La sua esistenza, come quella di tante donne del suo tempo, è trascorsa in un mare in tempesta, ma lei è sempre stata sulla cresta di un’onda, non si è mai fatta travolgere.

Non mi restano che queste pagine, sono la cosa che è stata più vicina alla sua anima. Eppure quando mi ha donato questo diario mi ha detto: “Tienilo con te e riempi quelle pagine che sono vuote. Ma non trattenerlo per sempre, nulla è per sempre- Quando avrai un figlio, o una figlia, passa a loro il testimone”.

 

Entra in scena l’insegnante e Martha le consegna il diario ed esce di scena

 

 

 

8 settembre 1987

 

Oggi in fabbrica è venuto a visitarci il Presidente della Camera, eletto da pochi mesi. Una persona speciale, il primo presidente donna, Nilde Iotti. Ha stretto le mani a tutte, anche a me. E’ stato un grande onore.

Nel suo discorso ha detto: “Se dovessimo considerare la mole di lavoro compiuto dalle casalinghe nel complesso della loro vita, ci troveremmo di fronte a cifre di ore lavorative superiori a quelle delle donne occupate nelle fabbriche e nei campi.” Ha poi sorriso, sapeva bene che noi, uscite dalla fabbrica, saremmo state casalinghe sino a tarda notte.

Come avrei voluto che ci fosse ancora Luigi, per raccontargli di questa giornata.

 

 

30 agosto 1982

Luigi questa mattina non si è alzato come tutti i giorni. Non si è alzato neanche se le mucche si lamentavano per essere munte e l’asino scalciava contro la porta della stalla, chiedendo il fieno. Non si è alzato neanche quando l’ho chiamato io, quando ho cominciato a scuoterlo, prima piano e poi forte.

Se ne è andato via, senza dire nulla, senza salutarmi. Senza farmi sapere se ero stata una buona compagnia in questa vita, una buona moglie, se fosse stata buona la cena, ieri e se l’avessa digerita. Se ne è andato perché quella signora vestita di nero, nella notte, lo ha affascinato di più di questa vecchia brontolona che sono. Se ne è andato perché la signora vestita di nero un giorno passa, ci lascia sulla spalla un piccolo fiore, e quando questo è cresciuto, torna per coglierlo e portarlo con sé.

Beh, Luigi, allora te lo dico io: Sei stato un buon uomo, un buon marito. Però mi potevi avvisare che era giunto il tuo tempo, così, giusto per salutarti.

8 marzo 1978

Via Po oggi era piena di donne. No, non ci sono andata io. Non ho preso il pullman per andare in città e mettermi a gridare con le altre. Si parla di aborto, da tempo oramai.

Se ne è sempre parlato, anche quando ero piccola. Ma di nascosto, con vergogna. Quando una ragazza aspettava un figlio e non era sposata, oppure era rimasta incinta da un uomo che aveva un’altra moglie, oppure uno che non lo voleva riconoscere, c’era una ostetrica che, pagando una bella cifra, veniva a casa e ti faceva (alzando il tono) “il lavoro”. Qualcuna aveva anche lo studio, ti facevi accompagnare da tua madre, oppure da una amica. Ti faceva “il lavoro” in fretta, te ne tornavi così a casa dopo un’ora, con le tue gambe. Ci aspetta la “mammana”…allora indossavi una gonna larga, e con la testa bassa andavi, così come si sale sul patibolo. Se eri fortunata era “lui”, il padre, che pagava l’intervento. Ma prima di sicuro aveva già provato a farti saltare più volte da un muretto alto, oppure ti aveva fatto trangugiare litri litri di tisana con il prezzemolo e il rosmarino.

No, questa volta non ci sono andata in piazza a protestare, non ho preso il pullman per la città. Sono rimasta a casa, ad ascoltare la radio, le urla di rabbia del corteo e intanto, intanto pensavo alla figlia di Rita, che aveva solo diciassette anni e che è morta per la setticemia. La “mammana” aveva le mani sporche, non aveva nemmeno disinfettato  la cannula di  aspirazione e  l’infezione  dopo sette giorni di  agonia,  se  l’ è  portata via… appunto.

 

 

 

8 marzo 1971

Sono andata cena in trattoria con le ragazze della Linea 8 di Mirafiori. Una tavolata di venti donne, tutte operaie tranne tre che fanno le impiegate negli uffici. Più che tranquille signore sembravamo un gruppo di camionisti. Ci siamo divertite un sacco, dopo qualche bicchiere di vino alcune hanno cominciato a parlare del loro menage familiare e una dopo l’altra ci sono andate dietro tutte. Ne ho sentite di tutti i colori. Manuela, quella che lavora alle presse, a un certo punto si è alzata, tenendo le gambe un po’ allargate, e mimando la voce da uomo ha confessò: “E poi mi si è presentato così sulla porta della camera, con i calzini ai piedi e le mutande della Cagi bianche. Dicendo: <Questa sera siamo come Eros e Psiche>. (Ah AH AH).

Gli ho risposto: <Veramente mi sembri Don Chiscotte, al massimo sarò il tuo Sancho Pancia>. (ah ah) Guardando le Cagi ho visto che non gli era piaciuto molto quello che avevo detto”.

Un’altra, Luciana, disse: “La mia amica Jolanda dice che lei l’8 marzo non esce con le donne, ma va in giro per la città a suonare i campanelli a caso, di sicuro ci trova un uomo solo e annoiato davanti alla televisione”. E tu che cosa gli hai risposto: “Passa per prima da casa mia, il mio starà guardando di sicuro una partita, così ti manda a quel paese per primo”.(ah ah ah)

Quando sono tornata a casa Luigi era già a dormire. Si sentiva il suo russare dall’ingresso. Sul tavolo in cucina c’era un biglietto e un vasetto con un ramo di mimosa. Sul biglietto c’era scritto: “Buona giornata della donna”. Luigi fa il contadino, ma il suo cuore è quello di un poeta.

 

 

8 marzo 1970

In fabbrica non si parla d’altro, così come in Tv e alla radio. Oggi nel corteo tutti inneggiavano al diritto al divorzio. Era già da un anno che il movimento si era mobilitato con grandi manifestazioni per un provvedimento presentato alla Camera nel 1965.

Stamattina presto ho preso il pullman con Rita, per andare alla sfilata in centro città. Rita si era vestita come se dovesse andare a messa. “Rita, dobbiamo camminare tutto il giorno, ma sei sicura di essere comoda?”. Lei mi guardava imbarazzata, una volta seduta mi chiese: “Ma tu vuoi divorziare?”. “Ah ah, certo che no Rita. Ma voglio che le donne che non stanno bene nel matrimonio, si possano liberare dal vincolo”. Ho capito che era lontana dal mio pensiero. “Pensa Rita, pensa ad una donna il cui marito, non so … ad esempio è all’ergastolo…”. “Eh, pover uomo, e vuoi che la moglie lo lasci”. “No, stiamo andando a manifestare per una legge che vuole il Diritto del Divorzio, non il Dovere di divorziare! Pensa, pensa a quella donna che ha il marito in carcere perché ha ammazzato, magari suo fratello. Ma scusa, non deve avere secondo te il diritto di slegarsi da lui e potersi rifare una nuova vita?”. Rita continuava a guardarmi con gli occhi sbarrati…

Per la strada c’erano tante persone, non solo donne. In testa al corteo ho visto Carlo, mio figlio, che reggeva lo striscione. Parlava fitto fitto con una ragazza con i capelli ricci. Che belli che erano. Ho preso per braccio Rita e siamo entrate in un bar. “Dai, beviamo qualcosa, che ci serve energia!”

“Per me solo una tisana al mirtillo, bella calda” ha chiesto Rita. Mi faceva tenerezza, impaurita dalla confusione, con la sua borsetta di vitello stretta stretta al cappotto. L’avevo portata in un mondo che non comprendeva, ma sapevo che se era venuta, in fondo al suo cuore di donna di campagna, c’era la stessa mia voglia di cambiare il mondo delle donne.

“Per me un Pernot” chiesi con tono deciso. Così, con il sapore di un Maggio Francese non troppo lontano.

 

 

28 aprile 1963

 

Oggi io e Luigi siamo andati a votare assieme. Abbiamo preso la macchina, la giardinetta nuova Fiat. Un sogno che avevamo da tempo. Luigi aveva un bel cappello in testa, teneva il volante emozionato, anche se voleva dare l’impressione di essere sicuro. La strada è sconnessa, ci sono buche e sassi e a ogni salto imprecava: “Le balestre, le balestre…”. Davanti al seggio è sceso e mi è venuto ad aprire la portiera. I ragazzi ci sono venuti incontro per curiosare e qualcuno ha anche provato a toccare la carrozzeria ma Luigi lo ha fulminato con lo sguardo. Mentre salivamo le scale mi ha detto: “Tu sai cosa votare, vero?”. “Lo so, Luigi, lo so da quasi vent’anni”. Non avevamo le stesse idee. “Già, voi donne sapete tutto. Chissà a che tempi andremo incontro…”. “Ai tempi del rispetto, Luigi, e della vera parità tra uomo e donna, ma c’è ancora tanta, tanta strada da fare” risposi, cedendogli il passo. Eh si, sono passati quasi venti anni da quel 1946 quando le donne andarono a votare, per la prima volta.
 

Legge Rita, la nonna:

 

“Dobbiamo farci rispettare, certo. Ma prima di tutto dobbiamo rispettare noi stesse. Non serve piangerci addosso o compatirci, dobbiamo pilotare la nostra esistenza come si pilota una macchina nel traffico. Imparando ad evitare gli ostacoli, sapere quando spingerci avanti e scegliere bene i compagni di viaggio, facendo scendere chi ci distrae dal nostro cammino!”

Era appena finita la guerra, si piangevano le persone morte, mentre ancora si consumavano vendette e rancori. Avevo allora poco più di trent’anni e la guerra mi aveva tolto gli affetti più cari, mio padre e mio fratello. Uomini e donne avevano combattuto fianco a fianco, qualcuno si era comportato da eroe, altri erano stati della peggior feccia. Come dopo un tornado, la terra era ricoperta di macerie e di rovine, ma su queste, uomini e donne decisero di ricostruire l’Italia, mattone dopo mattone. Il 2 Giugno del 1946 si andò a votare e per la prima volta le donne poterono esercitare questo diritto.

Dei 566 eletti 21 furono donne, l’Assemblea Costituente che per tutto l’anno seguente compilò la nostra Costituzione.

Andai a votare con tante altre donne, tantissime. Quasi il 90 per cento della popolazione femminile con il diritto al voto si recò alle urne quel giorno. Non misi il rossetto quella mattina, non ne avevo e comunque era vietato, avrebbe potuto sporcare la scheda, al momento di inumidire la colla per chiuderla, che così sarebbe stata annullata. Scelsi una donna, mi piaceva il suo sguardo, nei suoi occhi c’era il colore del futuro che brillava limpido e sicuro.

 

Quella donna eraTeresa Mattei, genovese, la più giovane eletta dell’Assemblea, inventrice con Teresa Noce e Rita Montagnara dell’uso della mimosa per l’8 marzo, e che in una seduta pomeridiana del 1947 disse: “Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, non vogliamo che le donne italiane aspirino ad un’assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese”.

“PRIMA DI TUTTO RISPETTIAMO NOI STESSE”

(tutte tre insieme)

 

Testi di Valerio Moschetti ispirati e sceneggiati da Marina Redolfi Tezzat.

Letti a “U Bastu” di San Biagio da Alice Nocetti (Martha), Marina Redolfi Tezzat (Marisa) e Rita Arduino (la nonna Maddalena).