Irma

Ritratto_di_anziana_signora_-_RembrandtEra il quinto anno delle superiori ed al collegio non mi ci hanno più voluto. L’avevo fatta grossa e mio padre ci era rimasto davvero male; ma a scuola andavo davvero bene ed era l’ultimo anno di superiori. C’era la maturità e quindi i miei decisero di trovare una pensione, una famiglia, che potesse ospitarmi per quell’ultimo periodo scolastico.

Andammo una domenica, ricordo, era fine Agosto  chiedendo ai bar della zona, vicino alla scuola, se conoscessero qualche sistemazione possibile.

Non ero solo, c’era anche Massimo, compagno di sventura in quella vicenda che, siccome un po’ me ne vergogno, non mi va di raccontarla.

E con Massimo i suoi genitori, anche loro convinti che finito quell’ultimo anno era ora che ci arrangiassimo nella vita, in autonomia.

Ci indicarono una palazzina dove al primo piano abitava una signora, sola e non più giovane, che affittava camere e faceva anche un po’ di cucina, la signora Irma C., “Suonate più volte”, ci disse ripetendo quasi fosse un ritornello la signora del bar, “è sempre un po’ nei suoi pensieri ed è distratta”. Lo disse sorridendo, come si fa quando si parla di quelli un po’ matti, ma con più rispetto, come se quella leggera pazzia avesse un suo perché.

Ci presentammo alla porta della signora Irma, i genitori in testa ed io e Massimo dietro. Suonarono in effetti tre volte, commentando che forse non era in casa. Poi l’uscio si apri un poco ed infine completamente e la Irma, parandosi dalla luce del sole con la mano, ci sorrise.

Era minuta, ma di bell’aspetto Agli occhi di noi ragazzi sembrava vecchia, chissà quanto, ma si sa, i ragazzi non hanno misure, sopra i cinquant’anni si è tutti vecchi uguali a meno che non si sia una star del cinema o della tv.

La signora Irma aveva i capelli biondi, chiari, sottili e raccolti in una ciocca sulla nuca, ma elegantemente pettinati. I grandi occhi azzurri e le mani giunte, un po’ di lato, contribuivano a darle quel senso di stupore e curiosità.

Le sue spalle erano minute e cosi il suo corpo, ma era vestita bene, elegante seppure in modo molto semplice.

Ebbi il pensiero che ci stesse aspettando od aspettasse qualcuno. E quello stupore, quella attesa nel suo sguardo, si attenuò, facendo posto ad un sorriso di cortesia, un po’ rassegnato.

“Buongiorno, in cosa Vi posso essere utile?” ci chiese, guardandoci uno ad uno. Teneva la bocca leggermente piegata verso destra, quasi a controllare il tono, e questo le conferiva una ulteriore eleganza, uno stile ed una sensazione di attenzione nei confronti degli altri, quasi a non disturbare o semplicemente ad evitare che qualche piccola goccia di saliva potesse scapparle, parlando.

Fu semplice accordarsi, era il posto giusto, la persona giusta ed anche la quota mensile richiesta era alla portata dei nostri genitori.

In breve, dopo una tazza di the e qualche biscotto, i nostri genitori era pronti a rientrare e, con le mille raccomandazioni alle quali i figli rispondono sicuramente con un Si, stai tranquillo, ci lasciarono per tornare a casa.

Irma ci destinò la camera, dettando con dolce fermezza alcune regole di buona convivenza, ribadendo che lei era sola, e quindi l’attenzione nello chiudere porte ed infissi quando si usciva era fondamentale per la sicurezza delle nostre cose. Ed era contenta che adesso aveva a casa due robusti ragazzi che avrebbero tenuto lontano i male intenzionati. Sorrise, con quello suo sguardo dolce, ma anche incredibilmente rassegnato. O forse no, speranzoso in chissà che. Non riuscivo a capire, a capirla, mi sembrava una di quelle foglie a cui l’autunno ha regalato colori insperati, ma fragile e gettata nel primo vento freddo che rabbrividendo vola tra gli alberi spogli.

Per sera avevamo sistemato tutte le cose, la camera era piacevole, ed anche gli spazi per noi erano rispettosi del fatto che quella, per un anno, sarebbe stata la camera di due post adolescenti un po’ polli.

La voce di Irma ci chiamò dalla cucina: “Venite, è pronto”. “Mi raccomando le mani, scusate…”, Il tavolo era apparecchiato per quattro, ma mentre ci si sedeva a tavola, Irma tolse un coperto, riponendo con cura il piatto in dispensa. “Mah, forse c’è un altro ospite in casa, ma non viene a cena”, pensai io. C’era nella pentola una sugosissima spaghettata, e mentre ci serviva disse:”Che bello vedere dei ragazzi affamati, mangiate, mangiate che avete bisogno di energia, domani ricominciate la scuola…”.

Sembra una sciocchezza, ma questo pensiero, questi gesti, quelle parole avevano infiniti significati che, inforchettando la pasta, lasciavo scorrere nei miei pensieri. Li riassunsi tutti pensando che saremmo stati bene li, era il posto adatto.

Finita la cena, mentre Irma ci osservava compiaciuta, chiacchierammo un po’. Mangiare assieme è una cosa davvero intima, non c’è nulla come dividere il cibo che permette di avvicinare le anime delle persone sconosciute. A tavola si disegnano i confini del rispetto, del piacere dell’altro. Si stabiliscono anche i ruoli, le gerarchie, ma soprattutto ci si comincia a voler bene.

E Irma, sempre cortesemente, ci interrogava, chiedeva di noi, delle nostre abitudini, delle aspirazioni.

I suoi occhi accompagnavano il nostro parlare e con la testa approvava, o si stupiva, e la sua mimica era davvero dolce.

Ogni tanto distoglieva lo sguardo, verso la porta, e sembrava tendesse l’orecchio per sentire qualcosa. Poi riprendeva ad ascoltare, a parlare.

Guardandola pensavo quanto fosse indifesa, fragile. Come un calice di cristallo pregiato dal quale avresti paura anche solo a sorseggiare del vino, per paura di romperlo. E questo la rendeva cosi preziosa, ma anche forte, ferma e sicura.

Iniziò cosi la nostra scuola, quando tornavamo Irma ci guardava arrivare dalla finestra, ma poco prima che entrassimo andava in camera sua a risistemare i capelli, a lavarsi le mani.

Ed il nostro vociare, il camminare pesante, riempiva quella casa di vita e rumore.

In realtà Irma teneva sempre una radio accesa, anzi un mangianastri, sul quale erano poggiate tre musicassette che metteva a rotazione. Musiche dei suoi tempi, foxtrot, mazurche, musica allegra.

La ascoltava a volume basso, si sentiva appena. Certe sere, quando andavo in bagno, vedevo attraverso il vetro smerigliato della sua camera la sagoma di lei seduta sulla sedia, con la schiena piegata verso destra, ascoltando la musica. Immaginavo che sognasse la sua gioventù. Perché giovane un giorno fu anche lei e chissà se le sue gambe, ora esili come quelle di un merlo in campagna, allora avevano volteggiato sul parquet di qualche balera mentre altrove imperversava la guerra, facendo sognare chissà quanti giovanotti.

Non ci posso giurare, ma una sera mi è sembrato vederne l’ombra, al di la della porta, danzare, stringendo se stessa.

Che peccato che la vita non ci permetta di poterci mostrare, magari una sola ora all’anno, con le sembianze di quando eravamo giovani e belli e la vita era tutta dentro di noi. Ci potremmo mostrare, in quell’ora, a chi ci conosce solo adesso e neanche può immaginare il nostro splendore, oppure ci potremmo far vedere da chi ride della nostra vecchiaia e magari dargli un pugno sul naso, come sicuramente avremmo potuto fare allora.

E sicuramente, come la Irma, mostreremmo la grazia e la bellezza, per un’ora sola, a chi soltanto può intuire quello che è stato.

Poi Irma spegnava la radio e la luce. Sentivamo le sue preghiere, il suo bisbigliare.

E la mattina la ritrovavamo sempre la, in cucina, ad aspettarci. Sul lavandino un piattino ed una tazza pronti per essere messi in tavola, quel coperto che andava e veniva, ogni giorno e quello sguardo rapido, alla porta. Poi il sorriso di sempre, il coltello che spalma marmellata sul pane. “Su, via, via, dai… muovetevi che fate tardi, dormiglioni”.

Qualche volta pensavo, perché non le diamo un bacio sulla guancia, prima di uscire. Ma era fragile minuta o forse non era neanche quello, era il suo pudore, quel mondo che non riuscivo a capire, che mi sfuggiva, che la portava, a tratti, lontano da noi, da questo mondo, lasciando il suo calice di cristallo li, con gli occhi azzurri color del mare a fissare il vuoto.

Un sabato non tornai a casa dai miei genitori, ma dissi ad Irma che se non era per lei un problema, sarei rimasto per il fine settimana.

Per mangiare mi sarei aggiustato in pizzeria; non sapevo se lei andasse a trovare una parente, o qualche amica.

Oppure se qualcuno la venisse a trovare o si fosse dovuto fermare a dormire perché veniva da lontano, non volevo essere di peso. Irma mi guardò seria, non era dispiaciuta, no, assolutamente. Aprì e chiuse gli occhi ripetutamente, come se questo gesto le riordinasse i pensieri in testa, poi mi disse:”No, stai pure, non c’è nessun fastidio. Non so, se arriva qualcuno te lo dico, ma non c’è nessun problema. Forse domenica, mi vengono a trovare, una persona che aspetto, ma può essere che non riesca, se non viene puoi mangiare con me qui. Come nella settimana. Se viene, magari, scusami sai, ti chiedo se puoi stare fuori, è tanto che non la vedo, quella persona, ed abbiamo tante cose di cui parlare. Non ti offendi, vero, scusami, sai, ma non sapevo…”. Le presi delicatamente le mani, “Irma, si figuri, facciamo cosi, lei mi dice come sono i suoi programmi, per me non è un problema nessuna delle due cose.

Passò il sabato a pulire la casa, a stirare quel bel vestito con cui ci aveva ricevuto, a sistemare i gerani sul balcone.

Poi usci a fare la spesa, mentre io studiavo, avevo da recuperare un’interrogazione il lunedì dopo.

Quando rientrò cominciava ad imbrunire, le borse della spesa sembravano più grandi di lei.

Le chiesi se voleva aiuto, ma fece di no con la testa, senza parlare.

Poi si mise in cucina a trafficare, rumore di pentole, la radio nella camera. “Irma, io esco, resto fuori a cenare” dissi a voce alta. “Va bene, passa una buona serata” mi rispose, mentre profumi e rumori di casseruole uscivano dalla porta socchiusa accompagnando la sua voce.

Quando rientrai non era molto tardi, poco dopo la mezzanotte. La piccola luce nella camera di Irma era accesa, la radio era spenta. Mi sembrava di sentire il sussurro delle sue preghiere o forse era qualche singhiozzo, non lo so. Andai in camera, la regola era quando si rientrava di fare piano, non salutare. Se c’era bisogno di qualcosa ci si vedeva la mattina. Rimasi a leggere un pò, poi il sonno la fece da padrone e mi ribaltò nel letto come in una mossa di judo.

La mattina della domenica Irma era già andata a messa, io aprii la finestra, il sole era ancora caldo e piacevole. Accesi la mia radio, un po’ di musica tosta, ero contento, sentivo che l’interrogazione sarebbe andata bene.

Irma rientrò, era quasi mezzogiorno. Apparecchiò la tavola, due piatti. Sistemò i tovaglioli puliti, una bottiglia di vino ancora tappata, l’acqua ed il pane. “Cosa faccio Irma, esco?”. Silenzio per qualche istante, poi con quella voce elegante mi dice:”Guarda, non sono ancora sicura che passi, quella persona. Ma se per mezzogiorno e quindici non c’è vuol dire che ha avuto un impedimento, e non viene questa domenica. Puoi aspettare ancora tu?”. “Si, Irma, a me non aspetta nessuno. Intanto rifaccio il letto, che sembra una cuccia”.

Alle dodici e trenta Irma si affaccia alla mia porta, “Se vuoi possiamo mangiare, è tutto pronto”. I suoi occhi avevano un piccolo, leggero velo, come quella leggera foschia che sul mare nasconde i contorni. Ma il suo sorriso era luminoso, come sempre.

Andai in cucina, dopo essermi lavato le mani, e mi sedetti. Lei tolse un coperto, lo ripose nella credenza, e prese nuovi piatti e nuove stoviglie per me.

Mise in tavola un piatto di salumi, con qualche foglia di insalata verde qua e la. “Ecco l’antipasto”, disse. Oggi è domenica.

Si sedette anche lei. Io la guardavo, mi faceva una tenerezza infinita, non sapevo che cosa fosse quel piatto, che mondo si nascondesse dietro a quei capelli sottili come la seta e biondi come il grano.

In un attimo avevo voglia di piangere, di abbracciarla, come se dal suo volto, dai suoi occhi azzurri comparissero le immagini di un mondo che neanche potevo immaginare, un mondo di attesa, di solitudine, di tristezza senza confine. Non lo so perché, non mi diceva nulla, metteva solo il suo prosciutto nel piatto, ma il suo cuore lentamente si apriva davanti ai miei occhi, come se tutto quello che aveva fosse scritto sulla tovaglia, sui muri, su quei fili di pasta che aspettavano di cadere in pentola.

“Irma, ma per chi è quel piatto. Per chi è quello sguardo che rivolge alla porta, cento volte nel giorno. Chi è che oggi non è venuto?”. Non ero aggressivo, ma ero deciso, non potevo reggere quello che nella mia anima, nel mio cuore, veniva a galla.

Non potevo non sapere, non potevo dare una ragione a tutti quei passi nella notte, quelle preghiere, quei sospiri che non avevano nulla a che vedere con la passione, ma con la tristezza più profonda.

Per un attimo Irma alzò gli occhi a guardarmi, ed il suo viso era teso. Anzi, no, liscio, non teso. Quel suo sorriso che sempre aveva in volto, per un attimo era volato via, e il suo sguardo era lucido, diretto. Poi abbassò gli occhi sul piatto e prese le sue mani una con l’altra.

Reclinò il capo un poco di lato, come il primo giorno che la vidi.

Ed iniziò a raccontarmi la sua storia.

“Sai, quando c’era la guerra noi non abitavamo qui. Questa casa l’ha comprata mio papà quando ha venduto la terra. Tanta terra, erano dei contadini, ed avevano anche le bestie. Poi la guerra ci ha messo nei guai, tutti, tutti quanti. Ma da mangiare non ce ne è mai mancato. Mio papà diceva – Chi arriva viene per portarne via un pezzo, dagli sempre tutto quello che vuole, basta che non si porti via la vita-. Poi una notte alla porta ha bussato un uomo, aveva una divisa sporca di sangue e di fango. I miei gli aprirono la porta e lui cadde a terra in cucina. Lo tirammo dentro e mia mamma, che sapeva fare l’infermiera, lo curò, gli pulì le ferite, gli lavò il viso e le mani. Mio papà gli tolse i vestiti e gli diede qualcosa di suo perché potesse essere pulito. Poi bruciò i suoi vestiti nel camino e con un martello distrusse i gradi e le decorazioni della divisa, ed i bottoni.

Io scaldavo l’acqua e la portavo a mia mamma che con un panno puliva quel viso. Era giovane, non aveva ancora trent’anni. I suoi capelli erano chiari come il fieno, come i miei. Ma erano forti, e ricci. Era bello, si, come era bello. Mio papa era agitatissimo, -Se ce lo trovano in casa siamo tutti morti e la casa viene bruciata. Dobbiamo liberarcene, buttiamolo fuori, portiamolo nel bosco-. Ma mia mamma teneva in mano quel viso, pulendolo. A me ricordava il quadro della Madonna con il figlio calato dalla croce. Lui aprì gli occhi, lo sguardo fisso nel vuoto. Poi li mise a fuoco ed in un attimo entrarono dentro i miei. Io avevo solo quattordici anni, ma il fuoco che accese quello sguardo era senza età e senza tregua. In paese un giorno un foglio di carta in fiamme finì nel fienile ed in un attimo le fiamme divamparono senza fermarsi. A nulla servirono acqua e cento persone che si dannavano su e giù per le scale, in poco più di un’ora tutto andò irrimediabilmente in fumo.

E così successe al mio cuore, quella sera, ma in molto meno di un’ora.

Mia madre disse -Questo è poco più di un ragazzo, non possiamo abbandonarlo così- Allora mio padre gli prese la faccia con le sua callose mani e scuotendolo gli chiese da dove veniva, come si chiamasse. Era agitatissimo, mio padre. Sapeva che lo stavano braccando e che tutta la famiglia stava per entrare in un incubo.

Ma lui non riusciva a parlare, era ancora intontito e solo i suoi occhi dicevano che era ancora vivo.

Fuori, nel buio, si sentirono delle voci. Delle urla che si avvicinavano verso casa. Mio padre sollevò le assi del pavimento e trascinò il ragazzo sotto l’itercapedine. Poi richiuse velocemente e ci fece sedere attorno alla tavola, come se avessimo finito da poco di cenare.

Bussarono alla porta senza rispetto forse usando i piedi od il calcio di una pistola. Erano soldati tedeschi, uno parlava italiano male, ma lo parlava. Mio padre disse che non aveva sentito nulla, solo degli spari lontani. Lo disse indicando verso il sentiero del bosco,. E questo bastò, i soldati uscirono. Ma il comandante disse, in tono minaccioso, che sarebbero tornati.

Allora noi si spense i lumi, e si andò a dormire. Ma io non riuscivo, ero agitata, mi sembrava di sentire il respiro di lui sotto in cucina, quasi forse ne avvertivo l’odore.

Scesi piano giù dalle scale, e camminai ad occhi chiusi, mentre la luce della luna filtrava dalle finestre. Immaginavo i suoi occhi che mi guardassero attraverso le assi e cercai, con l’istinto, di capire in quale punto fosse sdraiato. Mi sdraiai sopra di lui, il legno del pavimento ci separava. Solo quelle assi mal giuntate. Sentivo il suo respiro, il suo odore. – Come ti chiami?- sussurrò la sua voce. Credevo di morire, credevo mi scoppiasse il cuore. Era sveglio, era li, a non più di dieci centimetri da me. -Irma- risposi io. Per fortuna ero sdraiata a terra, sarei caduta fossi stata in piedi.

-Grazie, mi avete salvato la vita. Vedo i tuoi occhi e sento il tuo profumo. Sai di buono. E sei molto carina.- Io arrossii, ma lui non poteva vederlo. Ma sicuramente sentiva il calore del mio corpo, che era in fiamme-. Ci vediamo domani, dissi, nell’ultimo attimo di lucidità, alzandomi. Non potevo stare li, mio padre mi avrebbe uccisa. Tornai nel mio letto e non chiusi occhio tutta la notte. Ma la mattina fu il parlare di mio padre che mi svegliò. -Se ne è andato – diceva -Non c’è più- Il suo sguardo era attonito, era riuscito a togliere gli assi, senza fare rumore. Si era preso del formaggio, del pane. E sul tavolo aveva lasciato un pezzo di carta. Io corsi sotto, ero l’unica a saper leggere.

C’era scritto cosi – Grazie, mi avete salvato. Non morirò più. Torno a prenderti presto, Irma, e staremo assieme tutta la vita. Voglio mangiare con te, fare l’amore e fare i bambini –

Non lessi questa ultima parte ai miei genitori. Anche perché le lacrime non mi lasciarono spazio alle parole”.

E cosi dicendo gli occhi di Irma diventarono lucidi ed il pianto arrivò come la pioggia in primavera.

Io non sapevo cosa dirle, perché nulla c’era da dire. Guardavo quella minuta creatura singhiozzare, sperando che le lacrime non sciogliessero le sue carni.

Poi si chetò ed alzandosi prese quei piatti e quella forchetta, le posò sul tavolo, aggiustandole per bene.

“Non è morto sai” mi disse “in questa vita, od in un’altra, mangeremo una volta assieme”. E andò in camera, mettendo un vecchio valzer sul suo mangianastri.

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