Maria e Tano

piatti detrsivo-piatti“Maria, scendo al bar sotto…”. Salutò così Tano, spostando rumorosamente la sedia alzandosi da tavola e bevendo l’ultimo goccio di vino rimasto nel bicchiere. “Mmmhhh…” mugolò Maria dalla cucina, con un rituale oramai consolidato da anni, quale unico segnale di dissendo e protesta verso un’altra noiosa domenica pomeriggio passata a pulire casa mentre Tano, così lo chiamavano gli amici, avrebbe giocato a carte in attesa dei risultati delle partite, con cui verificare i cedolini delle scommesse fatte allo Snai. La televisione accesa in sala annunciava l’inizio di una telenovela e lei, di riflesso sul vetro della finestra che dava nel cortile del condominio, cercava la posizione giusta per godersi quella mezz’ora di sogni intanto che insaponava i piatti e le pentole. Se si fosse sbrigata avrebbe potuto sedersi un attimo in poltrona, asciugandosi le mani insaponate sul grembiale a fiori che Tano le aveva regalato l’ultimo Natale, assieme a quattro strofinacci sui quali renne e Babbo Natale si contendevano la scena. Per lei quei trenta minuti erano il momento più bello della giornata; magazzino da cui attingere per i sogni della notte, dove spesso si vedeva vestita con un abito azzurro ed una collana d’oro di indiscutibile valore, mentre entrava in un vero teatro, in una grande città, per assistere ad una commedia in dialetto napoletano. Al suo fianco non c’era Tano, Gaetano Stillero, ma un attore che in quel tempo era il sogno di ogni casalinga; George Mac Nelson. George faceva innamorare tutte le donne semplicemente con un sorriso ed anche Maria non era esente dal suo fascino. Era un piccolo grande segreto che non aveva confidato a nessuno, neanche a Rosa, la sua amica del cuore. Figurasi parlarne a Tano, nenche per scherzo. Mica perché sarebbe stato geloso, era troppo sicuro di sé quell’uomo, dal capello brizzolato e gli occhi chiari, resi interessanti dagli occhiali di metallo dorato. Un bell’uomo, sovrappeso e non di poco, ma deciso e presente; conosceva tutte le squadre di calcio, la classifica e l’ordine di arrivo dell’ultimo gran premio. Sapeva giocare benissimo ad almeno sei o sette giochi di carte. Benissimo nel senso che era il migliore. Poi, e questa era la sua vera forza, un incidente stradale gli aveva fruttato una pensione interessante senza realmente lasciargli una seria disabilità che aggiunta all’accompagnamento ottenuto per la madre, convivente, costituiva un reddito interessante. Bastava la mezza giornata di lavoro che Maria faceva pulendo le scale degli uffici pubblici e della posta per garantire a tutti quanti sicurezza e tranquillità.  Anche Maria da giovane era stata una bella ragazza, dai capelli neri e gli occhi di brace. Tano si era accorto di lei al matrimonio di un cugino ed il vino e la musica fecero da tramite perché iniziassero a parlare di  una vita assieme. A lei piaquero quegli occhi chiari; le venne in mente che avrebbero portato luce ai loro figli e poi era pure alto, cosa sperare di più. Tano  quel tempo lavorava, era bidello nella scuola superiore e questo, per diritto, gli conferiva un’aria istruita, forse perché parlando del più e del meno con i professori, imparava frasi ad effetto che gli davano importanza e che lui, con gran furbizia, utilizzava a dovere. Arrottondava lo stipendio vendendo focaccia e cornetti nell’intervallo, spesso riusciva ad anticipare il testo dei temi per il compito in classe, partecipava agli utili ed al commercio dei libri usati ad inizio anno. Insomma, si arrangiava con successo; uno con cui si poteva fare famiglia. Maria dal suo canto era ragazza d’altri tempi, senza griili per la testa. Era cresciuta con sua nonna in campagna e non aveva nessun dubbio su come desiderava la sua vita; lontano dalla vita rurale, in città possibilmente, un marito e dei figli. Una bella casa, potendo scegliere un secondo piano, ci avrebbe pensato lei a tenerla pulita e luccicante. E tanta luce, ecco, quello era la cosa a cui teneva maggiormente, tanta luce. Il suo sogno era poter aprire le finestre la mattina e veder entrare il sole. Sarebbe stata una buona moglie, come sua madre e come sua nonna. Buona cucina, tanta pazienza, tutta la vita dedicata ai figli, alla casa ma soprattutto a lui, Tano, l’eroe dei due mondi, della sua esistenza e del Bar Texas, quello sotto casa. Lei, Maria, non c’era mai entrata. Nessuna moglie si era mai azzardata a superare quella tenda si plastica multicolore fatta a strisce per scacciare le mosche. Semmai, certe volte, le femmine si affacciavano per chiamare il marito e chiedere se avevano piacere di accompagnarle in centro per far compere, sperando che dicessero la sognata frase: “No, vai tu che io ho da fare qui…”. Sarebbe stato un vero fastidio averli appresso, noiosi e scocciati, subito pronti ad interferire negli acquisti di casa, tranne che per il caffé o qualche dolce confezionato. “Pensi sempre a tuo figlio…” diceva Tano quando vedeva rientrare Maria a casa dal mercato, mentre metteva i biscotti nella dispensa. Ma lei abilmente aveva tenuto in fondo alla borsa le Macine del Mulino Bianco che a lui tanto piacevano, dopo che una sera alla televisione aveva visto la pubblicità nell’intervallo della partita ed aveva esclamato, frizzante: “Minchia, chissà che buoni, mi viene la voglia come le fimmene incinte…”. Da quel giorno Maria non li aveva mai fatti mancare e quando lui, osservandola riporre le cose in dispensa dopo la spesa, le faceva notare che aveva preso le Gocciole che piacevano al figlio più piccolo dimenticandosi di lui, lei, con un gesto da prestigiatore faceva comparire il pacco di Macine nuovo nuovo e quel gesto valeva tutto il matrimonio dei loro 20 anni assieme. Lei sapeva molto bene quelle quattro o cinque cose che facevano di lei una moglie ideale. Le Macine, questo è chiaro, le scarpe lucide e le camice stirate a perfezione, preparate ogni giorno sulla poltrona di fronte al letto. Attenzione, non la sera prima di andare a dormire, ma la mattina presto, che sembrassero fresche così come l’uovo strapazzato per colazione. Già, l’uovo strapazzato, una consuetudine imparata da militare da un marinaio inglese durante l’esercitazione interforce. Tano lo voleva tutte le mattine e secondo lui quello era il segreto della sua grande energia. Maria comperava le uova da una contadina fidata ed erano le migliori che si potessero trovare. Quante volte, la domenica dopo la messa, Tano sul sagrato raccontava delle proprietà di quelle magiche uova scherzando con amici e parenti, ammiccando a prestazioni degne del suo ruolo di capo branco, capo famiglia e capo banda dei nulla facenti del Bar Texas. Maria sapeva bene come gestirlo anche in quella circostanza; abitudine e sicurezza. Si dedicava al suo sesso con costanza ben sapendo quali erano i trucchi per avere un buon risultato e poi qualche minuto di sottomissione dando l’idea che quello fosse il momento più felice della sua esistenza, ed ogni volta il migliore in assoluto. Tano soffiava come il mantice che suo nonno usava per ravvivare la brace che faceva arrossire i chiodi per mettere i ferri al cavallo. Alla fine le dava una grande pacca sulle chiappe dicendole: “Brava, và…” e lei sapeva che il compito era assolto ed anche per quella settimana era “una bona fimmena, una bona mugliera”. La parte delicata, quella del suo piacere, Maria se la conservava da parte, come la fetta buona della torta. Era nascosta, al sicuro, e non poteva accadere che Tano si accorgesse che oltre a quella umida faretra che accoglieva l’incerta asta potesse esistere un fiore delicato, di pregiato giardino, che necessitava di cure ed attenzioni, per aprire i petali al sole, alla felicità, al piacere. Tano non ne aveva neanche mai immaginato la presenza, così intento a spingere, gonfiare, riempire quella polpa umida ed oscura. Stantuffo, pressione, spinta; operaio e padrone. Lotta d’amore. Eppure anche per lei c’era stato un tempo dei sogni, quelli che riempiono la vita ogni giorno. Un sogno dai capelli ricci, neri come il carbone, che l’aspettava davanti a scuola la mattina per regalarle un sorriso prima di andare a fare il muratore in cantiere. Lei abbassava gli occhi ma non il cuore; batteva forte e nella pancia mille farfalle colorate prendevano il volo. Saliva le scale per andare in classe, tra cento altre ragazze, eppure sentiva lo sguardo di lui che la carezzava, le spalle, la schiena, le mani. Una mattina mentre china sul foglio cercava l’idea per il compito in classe guardando oltre la finestra, vide quei riccioli di pece che si muovevano veloci sull’impalcatura del palazzo di fronte; braccia sode, muscolose, passo da felino. Cemento, mattoni, polvere bianca. Cercò i suoi occhi, il suo sguardo con tutto il desiderio che il cuore giovane e potente di Maria era capace e quel raggio d’amore lo raggiunse, incrociarono gli sguardi. Sorrise. La penna cominciò a scorrere sul foglio come acqua limpida di sorgente. I mattoni diventarono leggeri, il cemento morbida pasta di mandorle. Quando il vento raccolse l’urlo di riccioli neri mentre tornava alla madre di tutti per un errore, un passo distratto, sfidando il volo dei gabbiani, il calamaio d’inchiostro blu come un’onda lenta e violenta cancellò ogni parola sul foglio a righe ed il pianto disperato non riusci a raggiungere Mirko, a fermare la sua caduta, ad essere cuscino, materasso, paracadute.  Nel freddo mattino mentre in chiesa tutti pregavano piangendo, Maria guardava fisso negli occhi la statua del santo, chiedendogli perché. Ma gli occhi del santo la sfuggivano, non avevano risposte e lei uscì dalla chiesa. Mirko non era più lì, lei lo sapeva bene e la sua anima ribelle e pura era volata lontana prima che il duro asfalto potesse macchiarla. Giurò a se stessa che nessuno mai avrebbe avuto accesso al loro giardino incantato e quando poi la vita la portò tra le braccia di Tano, pistone, stantuffo, alito di vino ed attraverso il suo corpo la casa, la famiglia, la stirpe, i cognati, i parenti ed il suo tempo trovarono ragione, un angolo puro ed immacolato, nascosto, protetto restò per sempre inviolato e solo lei, lei sola, poteva accudirlo, coltivarlo e raccoglierne i fiori per portarli a Mirko, con il cuore, con il pensiero, con il sogno. Era semplice Maria, in quella scuola non ci era più voluta andare e furono le mani affusolate e bianche di sua nonna che le insegnarono come tenere l’ago e diventare sarta. Era abile Maria, cuciva abiti da sposa sognando il suo, vestiti per il ballo, sperando di volare tra le braccia di Mirko ed ogni volta, quando ripiegava la stoffa nella carta velina da pacco prima di consegnarla, una lacrima cadeva lasciando la sua firma, che svaniva in fretta.

La porta si aprì e Tano rientrò sventolando una ricevuta dello Snai: “Questa volta spacchiamo davvero…” disse a voce alta, guardando Maria con sfida, cercando il telecomando. Cambiò canale, le partite erano quasi al termine e questa volta aveva fatto la scelta giusta, vinceva, ne era certo. Maria asciugò gli ultimi due piatti e si sedette sul divano guardando quelle immagini di gambe e palloni di cui non capiva i senso. Avrebbe saputo domani al mercato se Gerard e Nicole si fossero baciati, la grande fortuna che anche quella domenica era sulla soglia di casa loro aveva la precedenza, la sua fiction era “roba di fimmene…”. Sorrise distratta alle imprecazioni di Tano, l’eroe dei due mondi, conquistatore dei cinque continenti, campione di scommesse.

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