In quel periodo ero imbarcato su una bettolina minore della Marina Militare, di base a Messina.
Si era quindici di equipaggio, contando Lilly, una cagnetta randagia che si era imbarcata all’ultimo istante prima che lasciassimo l’ormeggio, una mattina di freddo inverno, forse convinta che la nostra rotta la portasse verso climi tropicali ed infinite riserve di crocchette.
Il comandante, Filippo Aricò, ci ordinò di filarla a mare, perché a bordo non poteva assolutamente esserci un cane. Ma non ci credeva neanche lui a quello che diceva e subito dopo, appena preso il largo con la nave, chiese al cuoco qualche avanzo di carne per rifocillarla.
Lilly divenne la mascotte di tutti noi ed era sempre la prima a scendere a terra, come la passerella veniva posata in banchina.
Seguiva le operazioni di ormeggio con grande attenzione, mentre quando si salpava si accucciava a poppa, tra le cime arrotolate, lasciando che i suoi marinai si occupassero delle operazioni di bordo. Aveva una passione sfrenata per il cuoco, lo stimava profondamente.
Era cosciente del fatto che il cibo passava comunque per le sue mani e non c’era mattina che non lo aspettasse, scondizolante, davanti alla porta della cucina.
Faceva una vita da regina, a bordo, ed era coccolata da tutti.
E quella notte, mentre navigavamo verso l’isola di Marettimo per il solito rifornimento settimanale d’acqua, fiutava l’aria cercando profumi conosciuti.
Andare a Marettimo in quella stagione estiva, come andare a Favignana, era per tutti noi una grande festa.
L’isola era colma di turisti, soprattutto stranieri, ed arrivare portando il bene più prezioso, l’acqua, vestiti da marinaio, con i vent’anni nelle gambe e non solo, ci dava un entusiasmo senza pari.
In banchina ci aspettavano sempre curiosi e pescatori, macchine fotografiche che riprendevano le operazioni di sbarco delle manichette per l’acqua e spesso alla fine dell’ormeggio si sentiva un applauso collettivo dei presenti a quella che sembrava una rappresentazione organizzata dalla Pro-Loco.
Non lo nego, ci sentivamo un pò parte di un set cinematografico, e la cosa ci rendeva frizzanti.
Anche qualche macchia di unto sulle magliette bianche dava maggior credito alle operazioni.
La visita a Marettimo era però particolare.
A ridosso del porto, con le finestre che davano sulla nera scogliera lavica contrastata da una candida sabbia, c’era la Villa Spreafico, una splendida palazzina di tre piani, stile ottocento, leggermente barocca.
Tutt’attorno un recinto di oleandri fioriti e fichi d’india la ornavano con i colori tipici della terra sicula.
La villa, un tempo abitata dai nobili probabilmente proprietari dell’isola, era ora abitata da una loro discendente, la Contessa Concetta Spreafico di Marettimo, nobile decaduta.
Le finanze della sua famiglia si erano esaurite negli anni e lei aveva venduto progressivamente i suoi terreni e gli appartamenti per far fronte alle spese che la casa e la vita le avevano imposto.
Ma questo non aveva intaccato il suo stile e la sua grazia, lasciandole inalterato quell’aspetto affascinante ed un pò snob che tanto incantava chi aveva l’occasione di incontrarla.
Nonostante le sue nobili origini e la sua classe, amava vestirsi come i giovani di allora, utilizzando ampie gonne a decori floreali, camicette con il pizzo e teneva i lunghi capelli, oramai striati ma non tinti, raccolti in una gonfia treccia adagiata sulla spalla.
Ma i suoi occhi, neri come la brace, erano luminosi come lampare nella notte e quando il suo sguardo catturava l’attenzione, non era possibile distoglierlo da lei.
Il suo viso, non più giovane, era una baia sulla quale ogni marinaio sognava di naufragare.
E lei, ben cosciente del suo fascino, non faceva nulla per evitare il naufragio delle povere anime.
La sua passione per la gioventù faceva si che la sua villa era aperta ad ogni giovane che con il sacco a pelo sbarcasse sull’isola e la sua casa era un caleidoscopio di colori e risate.
Sembrava un ostello della gioventù, dove ognuno portava quello che poteva per fare una grigliata, una bella bevuta od una notte di sballo sino al mattino.
Ma quando sapeva che la bettolina arrivava al porto, la Contessa Spreafico faceva stendere alle finestre superiori un lenzuolo bianco al cui centro era ricamato lo stemma del suo casato.
Si pettinava con cura i capelli e li agghindava con fiori di oleandro. Metteva una splendida gonna a larghe balze, dalla quale traspariva una sottoveste di pizzo candido.
Poi indossava una camicetta che le lasciava respiro al seno prorompente, ponendo nella fessura una rosa rossa.
Seguiva da lontano le operazioni di scarico dell’acqua e quando, dopo una abbondante ora, tutto sembrava volgere al termine, si incamminava verso il porto, seguita dal suo fedele alano, ultimo vero simbolo della nobiltà di un tempo.
Noi ci si indaffarava a completare il rifornimento, adocchiando le ragazze in banchina che con sorrisi ammiccanti dimostravano le loro simpatie.
La sera cominciava ad avanzare ed una volta terminato il lavoro la notte era tutta nostra.
Il comandante dirigeva le operazioni sbirciando di tanto in tanto verso la Villa.
Non era più un ragazzo neanche lui ma il suo verace sangue siculo lo manteneva vigile ed attento.
E quel sangue, striato di blu da parte di madre, lo attirava inevitabilmente verso la contessa.
Quando tutto sembrava sistemato, abbandonava il suo posto e scendeva in cabina.
Metteva l’uniforme più elegante in sua dotazione e prendeva dall’armadietto un mazzo di fiori acquistato il giorno precedente.
Controllava dall’oblò i movimenti nei pressi della Villa e quando capiva che la contessa si avviava verso il porto usciva.
Quasi a completamento di una scena cinematografica d’altri tempi, la Contessa varcava l’ingresso del porto, seguita dal fedele alano e da uno stuolo di ragazzi fricchettoni mentre il Comandante Filippo lasciava la nave, con il dovuto saluto militare alla bandiera italiana.
La sera era oramai prossima e l’incontro era carico di tensione e passione.
I loro occhi si incontravano in un sorriso, mentre con un leggero inchino Aricò le baciava, senza sfiorarla, la mano. Lei, rivolgendosi verso la sua casa, ci invitava per la cena a festeggiare con i suoi giovani ospiti.
Era incredibile come quella scena, perpetuata più volte nell’estate, fosse sempre fonte di così tanta emozione.
Quasi un rituale, magico e profondo, che preparava ad una notte di festa.
E mentre lui le porgeva, sorridendole, i fiori, accettava l’invito a condizione di pensare noi al cibo e alle bevande.
Acconsentendo, la Contessa prendeva la mano del Comandante e si incamminavano verso la villa, mentre noi ed i ragazzi del posto iniziavamo a fare conoscenza, senza formali preamboli.
La notte poi era un vero baccanale, il vino ed il resto trasformavano la festa in quello che oggi noi chiamiamo un rave party.
Un flebile lume nell’ultima stanza al piano più alto ci segnalava che il Comandante e la sua Contessa si amavano in quella calda notte estiva.
Ma nessuno di noi, a quel punto, era in grado di farci caso.
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