Immersione

subNon era la domenica ideale per fare un’immersione: pioveva a dirotto, era gennaio ed a Torino, benché non facesse molto freddo, nulla ci dava a pensare che fosse una buona idea andare al mare per fare un’immersione.
Appuntamento sotto la casa di Gianni, a Moncalieri. Ero il primo, il sole non era ancora sorto ed avvolto nella mia giacca a vento rimpiangevo il mio letto caldo.
Gianni uscì dalla casa così come un criceto assonnato esce dalla tana quando viene svegliato con uno scrollone: mugolava parole senza senso, maledicendo la promessa fatta il giorno prima di partire in tempo.
Aveva gli occhi semichiusi e speravo vivamente che la pioggia ed il freddo lo svegliassero, visto che toccava a lui guidare. Pino invece arrivò baldanzoso come sempre, sacchetti ovunque, cicca in bocca.
Partimmo subito, la meta era Capo Mele, fondale di 40 metri, possibilità di relitto. Molto intrigante.
Viaggiando, preparammo il piano d’immersione. Pino mi aveva portato in regalo un decompressimetro antidiluviano da provare ed ero curioso di confrontarlo con il computer di Gianni, ultimo ritrovato della tecnica.
“Vedrete che al mare troveremo il sole” disse Pino, “ancora un’ora e siamo giù”. E fu proprio così, alle nove in punto eravamo ad Albenga, sotto un acquazone terribile, rintanati in macchina. Solo la metà delle sue previsioni si erano avverate. “Acqua sopra ed acqua sotto” disse Pino, scendendo rapidamente dall’auto. In un attimo si spogliò ed indossò la tuta. Certo, sono sincero, la voglia di seguirlo era pari a zero. Ma poi a vederlo tranquillo, nella sua tuta di neoprene da 5 millimetri, mi convinsi a fare lo stesso.
Velocemente vestiti, filammo il gommone a mare, puntando direttamente al largo, verso un fondale di 35 metri, dove avremmo calato l’ancora. Si, era vero, acqua sopra ed acqua sotto, e noi che correvamo su quella superficie tormentata dal temporale.
Eravamo veramente all’umido. Sulle labbra si miscelava il freddo sapore dolciastro della pioggia con il più mite salmastro degli spruzzi d’acqua di mare.
La muta ci proteggeva dal freddo, come il grasso protegge le foche dal fraddo glaciale, e come loro ci sentivamo a nostro agio, in quell’ambiente.
Raggiungemmo in fretta la nostra meta, gettammo rapidamente l’ancora.
Farsi sballottare dalle onde non era una sensazione piacevole e ci mancava di patire il mal di mare per completare il quadro.
Della costa si vedevano pochi contorni, tutt’attorno solo acqua. Ci immergemmo con rapidità, gli accordi erano di travarci sull’ancora e poi decidere cosa fare. Ci misi tre bei minuti a scendere, mi guardai attorno per vedere i miei compagni. Non si vedeva assolutamente nulla, neanche la punta delle mie pinne. Solo sospensione torbida, bolle dei respiratori; il fatto che io tenessi gli occhi aperti o chiusi non cambiava nulla! Il mare sembrava “spesso”, oleoso, migliaia di particelle mi passavano davanti alla maschera, sospinte dalla corrente e soltanto il contatto delle pinne con il fondo mi dava la sensazione di un mio spostamento.
Non persi la calma, cercai di leggere il profondimetro e l’orologio, decidendo cosa fare. La regola è; se non trovi un compagno entro un minuto, risali in superfice. Cercai a tastoni l’ancora, trovai una pinna, quella di Pino. Al suo fianco Gianni, lo teneva per un braccio. Con le maschere a 30 cm. cercammo di comunicare. Io sarei tornato su, devo essere sincero. Credo anche Gianni, pensando di finire in qualche bar a divorare panino e salame. Invece Pino ci fece capire che era una bella esercitazione, valeva la pena di portarla a termine.
Decidemmo quindi di provare alcuni esercizi, classici da piscina, come svuotare la maschera, supportare con il proprio erogatore il compagno. Tutte cose che fatte nelle calde e calme acque del centro sub sembravano uno scherzo, ma qui erano molto complesse.
Poi, dopo venti minuti, decidemmo di uscire, tornare in superfice. Una volta riemersi lo spettacolo che si offriva era sicuramente inquietante. Pioggia scrosciante, mare mosso, costa invisibile. Era veramente un’esperienza indimenticabile.
Risalimmo malvolentieri sul gommone, per qualche minuto ci eravamo sentiti creature del mare, veri trichechi direi.
Tornammo rapidamente a riva, il pensiero di qualcosa di caldo e saporito era nella mente di tutti. Ad accoglierci, sulla passeggiata, quattro pensionati con l’ombrello. Nei loro occhi lo stupore di tanta follia ed un pò d’invidia. “Vedrete i reumatismi, tra qualche anno” azzardò uno di loro.
Fini tutto in un bicchiere di buon vino rosso e quattro panini al bar, ridendo e scherzando.
Il mare, come sempre, ci aveva stupito, era stato all’altezza delle più fantasiose aspettative.

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