“Ganesh” disse volgendomi un leggero sorriso, mentre adagiata sulle piccole onde si faceva cullare, distesa come una piccola principessa sulla dormeuse di velluto, avvolta in un abitino di tulle variopinto sotto il quale spiccava il verde brillante di una tuta di panno. Aveva una sola scarpina, con un fiocco rosso e una cornice di brillantini che giravano attorno al contorno della suola. Si lasciava trasportare dal lento incedere del mare verso riva, voltando il capo a destra o a sinistra, senza sollevarlo mai.
“Che nome insolito hai”, le dissi sorpreso, “la tua pelle è scura come il carbone e il tuo nome è quello di una divinità indiana…” le chiesi lasciando che la brezza fresca le portasse la mia voce. Non mi rispose subito ma restò immobile a guardarmi. Continuava a dondolare assecondando il movimento dell’acqua cristallina, attorno ai suoi capelli riccioli e crespi danzavano una miriade di pesciolini argentei, facendo decoro e contrasto a quella chioma scura come la pece. “Si, lo so. Ma ho mille nomi io. Sono nata mille e mille volte ancora, tutte le volte che un sogno ha creduto di poter diventare realtà. Anche questa volta è successo, ma è stato vano. Ci proverò ancora, per sempre. La mia mamma mi ha vestito con cura, mettendomi le cose più belle che avessi. <<Andiamo lontano, sarà un viaggio difficile, ma vedrai un mondo nuovo, dove potrai giocare e ridere, ogni giorno>>. Così mi disse l’altro ieri, mentre andavamo alla spiaggia con tante altre persone. Era buio, quasi notte e le voci confuse si mischiavano mentre salivamo sul barcone. Un uomo mi aiutò a salire e poi aiutò mia mamma. Ci accucciammo davanti, vicino a un bidone pieno d’acqua. Il mare batteva sotto la chiglia della barca, quasi a minacciarla. Poi il rumore del motore, la puzza del fumo e io che mi rifugiavo tra le gonne della mamma cercando di dormire. Passò la notte, venne il sole caldo a svegliarci tutti e tra le pieghe della gonna c’era un pezzo di pane che mi aveva tenuto da parte. Tutto per me. Un piccolo pezzo di pane per una grande fame che mi rodeva dentro. Ma oramai era da tempo che ci avevo fatto l’abitudine, alla fame. Era diventata un’amica, la ritrovavo ogni mattina quando mi alzavo e la sera non mi lasciava dormire. Lunghi giorni nel deserto a camminare, sempre e senza sosta. Ogni tanto qualcuno mi portava in spalla per un po’ ma poi, sai, le forze mancano a tutti, anche agli uomini dalle spalle larghe.
Quando quella grande nave si avvicinò nel mare in tempesta, sentii le urla degli uomini a bordo che ci parlavano con una strana lingua. La pelle chiara, alcuni con gli occhi luminosi come i predoni del deserto. Ci giravano attorno, lanciandoci delle funi, dei salvagenti. Tutti i miei compagni di barca si spostarono per agguantare una di quelle funi, mentre lo scafo cominciò a inclinarsi da un lato. Qualcuno finì a bagno, cominciarono ad urlare. Mia mamma mi spinse verso il bidone d’acqua e si appoggiò a me, facendo in modo che quella confusione non mi facesse del male. L’uomo che stava al timone lasciò il suo posto mischiandosi a noi. Il motore spingeva ancora e il barcone, selvaggio come un cavallo senza briglie, andò a sbattere contro la prora della grande barca, con violenza, e tanti finirono nell’acqua. Qualcuno spariva sotto le onde, per poi riapparire un attimo e scomparire per sempre. Altri si abbracciavano l’un l’altro affondandosi tra i flutti. Un colpo più forte mi fece saltare per aria e l’ultima cosa che vidi furono le braccia di mia madre che cercavano di stringermi alla vita per trattenermi. Avesse avuto ancora le mani forse sarebbe riuscita a trattenermi, ma gliele avevano tagliate il giorno che al mercato aveva rubato del cibo, per darmi qualcosa da mangiare. Non so, penso che la mia testa andò a sbattere contro i legni dello scafo, non ricordo nulla”. Girò lo sguardo verso due gabbiani dalle grandi ali bianche che sfiorando l’acqua banchettavano attratti dai tanti pesciolini a lei intorno. “Che belli che sono, non li trovi meravigliosi?” mi disse. Non c’era tristezza nel suo sguardo. Solo una grande, immensa, rassegnata pace. Io pensai che tutto questo fosse un sogno, non ricordo nemmeno perché fossi li, io che non sono un grande nuotatore e in mezzo a quel grande mare sarei annegato in fretta. Scossi il capo, nel tentativo di allontanare le gocce d’acqua salmastra dagli occhi e la nebbia dai miei pensieri. “Ma sei sola ora, Ganesh” chiesi, “dove sono i tuoi…non hai paura, cosa possiamo fare…” Ogni cosa dicessi mi sembrava una stupidaggine; non potevo fare nulla. Pensai, cosa davvero assurda per me, di pregare. “Padre Nostro che sei nei cieli…” ripetei cercando nella memoria i ricordi di quando facevo il chierichetto.
Ganesh sorrise, divertita. Mi ascoltava, dondolando il capo trascinata dal movimento del mare. “Sei mussulmana tu, Piccola anima, o cristiana?”. “Che importa”, mi rispose, nel mentre le braccia e il busto iniziavano ad affondare. “Tu credi che ci siano cento modi differenti nell’uomo per sentire l’amore? Ci sono cento e cento lingue differenti ma esiste un solo modo per dire Amore, anche se con suoni diversi”. Mentre Ganesh lentamente scivolava nel fondo del mare girando lentamente su se stessa compresi, nella mia lingua, nella mia religione, che il Cristo è risorto da solo tutte le volte che un uomo ha cercato la libertà ma che è stato crocefisso da tutti noi ogni qualvolta non siamo riusciti a salvarlo. La piccola Ganesh sarebbe rinata un’altra volta e mille e mille ancora, sin quando un uomo aiutandola le avrebbe permesso di diventare donna.
Io non sono credente e forse è l unica criticità che posso trovare a questi racconto ma è davvero bello e commovente… Oltre ad essere ben scritto..grazie a Valerio per averlo prima di tutto pensato…