La Storia di Pietro

Osservavo Franco mettere gli ultimi mattoni lisciando con cura il cemento e mentre lo vedevo
assorto nei suoi pensieri mi venne in mente la prima volta che li avevo incontrati, lui e Pietro.
Me li aveva mandati il vicino. Dovevo rifare il bagno, i sanitari non ne potevano più ed anche la
scala che portava in giardino era un disastro. “Sono bravissimi,” mi aveva detto, “lavorano bene e
sono onesti. Sono abruzzesi e non è il lavoro che li spaventa”.
Arrivarono una mattina presto, alle sette meno un quarto. Stavo facendo colazione fuori sul
terrazzo. Chiesi loro se gradivano un caffé e proprio Pietro mi chiese subito di dare un’occhiata al
bagno, ed alla scala, senza perdere tempo.
Sembravano due fratelli, tozzi, spessi, con i capelli neri e ricci. Franco era il più giovane e non
parlava, Pietro parlava per due.
Nel mentre misurava, tracciava i segni dei punti dove spaccare le piastrelle con la matita, quella
matitona da muratore con la punta spessa, e chiacchierava.
Aveva ancora un accento marcato nonostante fossero tanti anni che viveva qui.
Entrammo facilmente in confidenza, anche se mi continuava a dare del lei, e mi chiamava
dottore. Ed io a dirgli che ero a malapena diplomato e poteva chiamarmi per nome, ma era più forte
di lui.
Mi cominciò a raccontare dei suoi genitori, quando stavano ancora al paese. E della paura che
aveva avuto quando suo padre, entrando un bel giorno a casa, aveva detto alla mamma “Ho trovato
lavoro al nord, prepara la roba che in settimana si parte”. Che fifa che avevo, mi disse Pietro, non
avevo amici, lassù. Non sapevo neanche bene cosa volesse dire Su Al Nord.
Io lo ascoltavo con piacere, scandiva le parole per farsi sentire, tra una martellata e l’altra.
Lavorava e parlava, senza fermarsi mai.
“Mio padre sembrava dell’altro secolo, era ruvido come carta vetro. Un giorno mi aveva portato
in campagna, avevo dodici anni. Vieni, andiamo a fare il coniglio. Avevo capito, ma non potevo che
seguirlo. Andammo alla gabbia dove teneva i conigli e le galline. Ne ha preso uno per le orecchie.
Me lo ha dato, -Prendilo per le zampe dietro, cosi, tienilo a penzoloni. Il coniglio scalciava,
rassegnato. Mi diede un bastone nell’altra mano, -Dai, forza, dagli un colpo secco dietro alle
orecchie. Forte, più forte che puoi- Non volevo deluderlo, avevo il terrore che mi pensasse debole, e
diedi giù una mazzata, con tutta la forza che avevo. Il coniglio mi sfuggi dalle mani ma aveva la
testa fracassata. Non eravamo più amici, io e il coniglio, gli avevo preso la vita per salvare la mia
paura, la paura che avevo di mio padre.
E lui era soddisfatto, -Bravo- diceva, -bravo, ora gli coliamo il sangue che va bevuto caldo-.
Quella notte sognai male, incubi terribili. I tedeschi, con i bastoni, che facassavano le teste ai
deportati. I deportati avevano le orecchie lunghe, e sbattevano le gambe per terra.
Non ho più mangiato il coniglio, mai, neanche al matrimonio con Mina.
Si Mina, mia moglie. Gliela devo far conoscere, sono già trent’anni che siamo sposati. E’ del mio
paese, anche lei. Sa come si dice, donne e buoi… ma è vero, è un proverbio vero. Se sposi una che
non è del tuo paese, poi ci devi dire tutte le buone maniere, come sono, le tue tradizioni, intendo.
Invece se viene dal paese tuo, sa già tutto. Pensi la prima notte, per esempio. Lei mi ha detto,
-Fai tutto quello che devi fare, ma non mi fare male- Io l’ho guardata negli occhi, aveva paura.
Allora le ho detto che non sapevo bene cosa era “tutto quello che devi fare”. Parlammo, e ci siamo
carezzati. Poi c’era il problema del sangue, si, le lenzuola. Non lo sa? Vedi, ogni posto ha le sue
tradizioni. La moglie al mattino deve stendere le lenzuola, sporche del suo sangue, cosi la gente sa
che era vergine, e che il matrimonio funziona.
Allora piangeva, perché pensava cosa dice poi la gente, domattina. E io non sapevo cosa fare,
aveva paura di fare l’amore, ma aveva paura della gente. Allora sono andato nel frigo, che ci
avevano regalato per il matrimonio, e c’era una gallina, e ho passato il collo della gallina sul
lenzuolo, ed al mattino era tutto a posto. Sia il matrimonio che la verginità. Vero Franco? Ti ricordi
che la nonna è stata la prima ad uscire, e guardare le lenzuola, e a dire -Tutto bene, buongiorno agli
sposi-.
Franco lavorava, sorrideva, e faceva si con la testa.
Era sera, andarono via assieme, esattamene come erano venuti. E tornarono il giorno dopo, con
la borsa di cuoio impolverata. -Dottore buongiorno, come state oggi?- e in cinque minuti erano al
lavoro.
-Sapesse dottore, la Mina ieri che cena che mi ha preparato. Eh, da noi si mangia bene sa? La
donna che cucina bene lega il matrimonio, per sempre. Oh, ma non creda eh. Io voglio bene a Mina,
come moglie dico. Dio ci ha dato tre figli, due maschi e una femmina. Ma noi gli abbiamo dato una
mano, a Dio, intendo. Si, perché io alla Mina ci voglio bene, e la rispetto. Da sempre. Certe sere,
quando torno a casa, mi trovo la vasca piena di acqua calda, e la Mina che mi dice -Se vuoi c’è
tempo per il bagno- Allora io vado, mi spoglio. Guardo sempre tutta quell’acqua un pò, prima di
entrare. Mi sembra un miracolo, alle volte mi appoggio al bordo della vasca, in ginocchio e con le
braccia sul bordo, e la guardo. In tutta la mia vita, al paese, non ho mai visto tanta acqua, calda,
tutta per me.
Poi vado nella vasca, e mi lavo. Mi sembra che la pelle si sciolga e l’acqua si sporca di cemento e
terra. Poi la Mina mi chiama e vado in cucina. Si mangia, subito dopo i ragazzi vanno a letto, che
domani si va a scuola presto, e io e Mina andiamo in camera. E io la rispetto, mia moglie, e il
matrimonio funziona, si, funziona. Se potessi le comprerei una pelliccia, alla Mina. E una collana,
con le perle, grandi.
Ma ci vogliono tanti soldi, la scuola ai ragazzi. Non voglio che debbano lavorare come me, tutto
il giorno, come somari.
Venne di nuovo sera, Pietro mi aveva raccontato mille cose, ed aveva piazzato mille mattoni E
anche Franco, ma quasi senza parlare. Anche se con il sorriso, muovendo la testa, confermava ogni
parola.
Tornarono a casa per poi arrivare ancora assieme, l’indomani, alla stessa ora.
E la settimana volò, e Pietro mi raccontò tutta la sua vita, e quella di Mina, poi mi parlò di
quella malattia, che lo faceva tossire di notte, che il cemento ed il lavoro della fabbrica, quando era
venuto al nord, era spuntata una mattina, sulle lenzuola, come quando aveva passato il collo della
gallina.
Quella malattia che doveva curare, che se vinceva alla lotteria andava a Milano, per fare un bel
lavoro e toglierla, se andava via.
E cosi portava anche Mina, le avrebbe comprato una pelliccia, che se la meritava, povera donna.
Perché era un buona donna, e gli aveva dato tre figli, grazie a Dio, e grazie anche alla vasca con
l’acqua calda.
Ed i suoi occhi erano lucidi, quando parlava cosi, e Franco lo ascoltava, mentre metteva su
mattoni, in silenzio.
Pensavo a tutte quelle cose, stretto nel mio cappotto di cammello marrone chiaro, quel sabato
mattina pieno di fredda nebbia mentre Franco metteva l’ultimo mattone, pareggiando bene il
cemento, in silenzio, per poi posare sopra il marmo bianco e fissarlo bene, mentre il parroco
benediceva e Mina, con quel suo vecchio cappotto di lana piangeva, piangeva nel fazzoletto bianco
ed i suoi figli la tenevano stretta.

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