LINOSA


linosaQuando quella sera di giugno dissi a mia madre, chiamandola dalla cabina telefonica nel porto di Trapani, che l’indomani saremmo andati a Linosa mi sembrò di vedere il suo viso un po’ sognante mentre cercava di ricordare una qualche lezione di geografia in cui si fosse parlato di quella isola lontana, rivolgendosi poi a mio padre, seduto sulla poltrona con le gambe poggiate sulla sedia mentre guardava una partita alla televisione:“U va a Linosa… ma duve a l’è?”. In cuor suo si era rassegnata a questo figlio con lo spirito da zingaro che, approfittando degli obblighi militari, dava sfogo alla sua voglia di curiosare per il mondo. In fondo era stata proprio lei, narrandomi le avventure di mio nonno, suo padre, che mi aveva fatto tante volte sognare una vita avventurosa su navi che affrontavano l’oceano per mete lontane, dal sapore orientale. Mio nonno aveva solcato i mari di tutto il mondo, fumando, bevendo ed amando in ogni angolo del globo. Per me era il diavolo, il peccato ed il mistero ma anche il senso della libertà, la luce del giorno dopo, il figlio di ogni trasgressione. E questo destino che mi accomunava a lui, non solo per il nome, si stava lentamente compiendo anche se io cercavo spesso di rinnegarlo. In quella sperduta cabina dimenticata sulla banchina del porto, mantenevo l’unico legame forte che avevo, quello con i miei genitori, mentre il cuore e la mente pensavano già a quel nuovo viaggio verso un luogo sconosciuto. Non si è mai veramente adulti per i sogni, per la fantasia. Anzi, credo che quando si perde la capacità di sognare, di fantasticare si sia irreversibilmente grandi e un istante dopo si cominci rapidamente a diventare vecchi. Questo succede a venti anni come a sessanta, non c’è differenza. Avevo incontrato persone apparentemente distinte e posate, ma che dalle piccole sfumature svelavano la loro natura giocherellona, oppure una piccola follia che conservavano come un fiore nascosto, da coltivare all’insaputa degli altri o da svelare solo a persone degne di esserne al corrente. Altri spesso pareva venissero visitati da uno spirito illuminante e, dopo un bicchiere di vino, riversavano fiumi di parole che mai avresti pensato di sentir pronunciare da loro stessi. Non parole senza senso, anzi, veri e propri proclami di rivoluzione, menti aperte in grado di mostrare nuove vie, custodi di un sapere ed una conoscenza della vita senza limiti. Eppure li conoscevi da tempo e ti sembravano timidi, in imbarazzo, forse custodi dei misteri dell’esistenza a loro insaputa oppure vergognosi di se stessi e delle grandi verità di cui celavano il segreto. Mostrare la propria anima, svelare i propri trucchi è molto pericoloso e mette in balia il cuore aperto ai dardi dell’ignoranza, della superficialità o semplicemente permette ai cani di orinare sui tuoi fiori. Quindi molti, come timidi musicisti, non si lasciano andare facilmente a mostrarsi in pubblico e preferiscono suonare le proprie melodie tra mura di casa. Solo in rare occasioni, per una donna o per una serata tra amici, si scoprono al mondo e svelano il loro estro lasciando a bocca aperta chi li ascolta. Così era Ippolito Filippo che fumando, sino a scottarsi le dita, una sigaretta “rollata” in attesa di poter telefonare, aspettava che io finissi di parlare con casa per poter chiamare i suoi, vecchi ed apprensivi genitori della bassa padana. Conclusi la telefonata pregando mia madre di non preoccuparsi, il tempo era bellissimo e questa volta, oltre a portare l’acqua, dovevamo scortare alcuni pescherecci per evitare che le motonavi tunisine le attaccassero. La loro preoccupazione era legittima; al telegiornale raccontavano di un peschereccio sequestrato con tutto l’equipaggio  perché sorpreso, così riferivano le autorità tunisine, a pescare in acque non consentite. Dove fosse la ragione non era cosa semplice stabilirlo ed il caso cominciava ad avere conseguenze internazionali di rilievo. In effetti pescare sotto costa dava risultati migliori e si poteva facilmente intuire che invadere le acque territoriali diventasse un invito davvero ghiotto quando la pesca era scarsa.E’ anche vero che le motonavi tunisine non vedevano a loro volta di buon occhio i pescatori che incrociavano per quel mare, togliendo risorse a quelli locali. Insomma, un fattaccio che poteva aver conseguenze catastrofiche; si era parlato di alcune sventagliate di mitra sparate da una motovedetta mentre un peschereccio fuggiva con i motori al massimo. Nessun ferito, solo qualche foro nello scafo, ma per puro caso. E poi quella barca sequestrata in porto con quattro pescatori di Mazara del Vallo in carcere. Linosa si trova proprio nel mezzo, esattamente a 160 km dalle coste italiane ed altrettanti dalla Tunisia; guardando la carta nautica si fa difficoltà a pensare che quel puntino simile ad uno scoglio sia in realtà territorio italiano. Lasciai quindi posto a Filippo, dicendogli di fare con comodo e che lo avrei aspettato per risalire a bordo. Me la ridevo vedendolo arrotolarsi con il filo della cornetta mentre amorevolmente gesticolava cercando, pure lui, di convincere la sua anziana madre che la missione non aveva nessun rischio. In realtà il rischio c’era, eccome! Quello che noi si doveva fare era frapporsi tra le navi dei pescatori e le motovedette dei Tunisini, cosicché se  avessero sparato dei colpi, questi sarebbero stati diretti verso la nostra barca, che pur essendo una cisterna porta acqua, era una nave militare e quindi loro avrebbero compiuto in quel caso un atto di guerra contro lo stato italiano. Una logica che avrebbe giustificato l’invio di navi di ben altre capacità belliche e qualche inevitabile scaramuccia a cui sarebbero seguite complicazioni diplomatiche di cui non ci era dato di sapere. E con questi pensieri tornammo indietro camminando per la desolata banchina male illuminata, fumandoci una sigaretta rollata con abilità da Filippo, fantasticando un po’ intimoriti su questi tunisini agguerriti, pronti a tagliarci la testa senza pietà con la scimitarra. Non era ancora sorto il sole quando lasciammo il porto con le stive piene di acqua, Linosa ci aspettava assetata; non esistevano ancora i dissalatori ed il mare in tempesta che aveva tormentato le sue coste tutta la settimana, non aveva permesso nessuna sorta di rifornimento, obbligando gli abitanti al razionamento dell’acqua e dei viveri. Gli abitanti erano abituati a queste situazioni di emergenza che non erano drammatiche se non nel periodo estivo quando i turisti, poco avezzi ai razionamenti, non sapevano rinunciare alla doccia serale dopo il bagno al mare e spesso spendevano capitali in acqua minerale pur di sciacquarsi i capelli e le spalle. Per i linosani faceva parte degli imprevisti, temevano molto di più un’orda di turisti maleducati che un mese di astinenza. Il mare era liscio come l’olio e navigare era molto piacevole; la nave fendeva l’acqua lasciando una scia costante e senza schiuma. Carica d’acqua viaggiava al limite del galleggiamento e pareva un enorme balena alla ricerca di acque pescose. A bordo ogni attività era ridotta al minimo e l’attenzione che si doveva prestare al proprio ruolo si poteva allentare trasformando quella navigazione in momento di relax. A me piaceva stare al timone, anche se in qualità di ufficiale avevo altre mansioni e lasciavo il timoniere a studiare le carte nautiche per prepararsi al suo prossimo esame per la patente nautica oltre le venti miglia. Filippo Ippolito si appartò nella sua cabina e dopo qualche istante per la nave una flebile melodia iniziò a scorrere varcando paratie ed oblò. Protetto da una custodia di pelle, Filippo conservava  gelosamente un oboe, il suo vero ed unico amico. In rare occasioni e quella giornata era una di quelle, si ritirava nella sua intimità posando sulla branda gli spartiti che teneva in una borsa di cuoio e dopo qualche breve scala per sciogliere le dita, ne sceglieva uno quasi fosse ispirato dal cielo ed iniziava il suo personale concerto. Per un tacito e naturale accordo, si assentava dalla sua guardia e qualcuno si preoccupava di prendere il suo posto, senza che lui dovesse rendergliene conto. Il comandante, siciliano aspro e consumato dalla salsedine, abbandonava il suo aspetto burbero beatificandosi di quelle melodie come un bambino del canto della madre e spesso si appartava in plancia per assaporare quella musica. Il rumore sordo e ritmico dei motori lasciava spazio alle note che scivolando in coperta, avvolgevano la tuga per poi riversarsi in mare diffondendosi ovunque. Nessuno di noi osò mai dire, nei giorni seguenti una volta  ritornati a Trapani,  che fosse quel suono la ragione dello spettacolo che seguì da li a poco; ma tutti noi lo pensammo quando dal largo con eleganti evoluzioni un branco di delfini iniziò le sue evoluzioni piazzandosi a pariglia sei per parte a lato della nave. Non  fu questo che sciuscitò lo stupore più grande, ma il fatto che udendo il suono melodico ed aggraziato nuotarono a lungo con il capo fuori dall’acqua volgendo lo sguardo verso il centro della barca. Come un pifferaio magico Filippo Ippolito aveva incantato quei nobili animali dall’animo sensibile che ci seguivano attenti ed assorti. Lui, ignaro della loro presenza, continuò intonando la Melodia per il Mare di cui era l’autore, inconsapevole artista del più insolito concerto che si potesse immaginare. Due specie viventi, così diverse ma tanto simili nei sentimenti, dividevano emozioni ed immensità in un viaggio che poteva essere senza fine. La poesia alle volte nasce spontanea, quasi per caso. E’ talmente pura ed armonica che solo il pensiero distratto non si accorge di come nulla sia caso ma tutto è frutto di un legame che unisce ogni cosa per rendere l’insieme perfetto, equilibrato, come un concerto che profuma di vita. In quell’angolo di mare tanto vicino all’immenso, così affine al paradiso, uomini in erba e delfini liberi erano assorti catturati dal linguaggio comune che lega in armonia ogni specie vivente. Poi Filippo Ippolito giunse al termine del suo capolavoro, asciugò l’oncia del suo oboe e lo ripose nella custodia di cuoio. Ognuno di noi, a modo suo, compresi quegli splendidi mammiferi marini, aveva fatto l’amore con la musica.

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