L’investirura

gattaErano oramai quindici giorni che non incontravo più la Gattara ai giardinetti, intenta ad accudire la sua comunità di randagi. Dietro al grande castagno, dove lei teneva sempre pulito, la mensa dei “mici di strada” era disadorna; qualche cartaccia con residui rinsecchiti di cibo e due o tre piatti di plastica abbandonati rendevano chiaramente l’idea che nessuno si era più occupato dei gatti. Chiesi alla panettiera in fondo alla strada se aveva notizie dell’anziana signora, ma non ne sapeva nulla. Aveva portato qualche avanzo del negozio per un po’ di giorni poi, presa dal lavoro, non si era spinta più sotto le fronde a rifocillare le bestiole. Una sua cliente, mentre uscivo dal negozio, mi poggiò la mano sul braccio, parlandomi sottovoce, quasi a confidarmi un segreto: “Non è stata bene, l’hanno accompagnata in ospedale e mi pare di aver sentito che ora sia in un convalescenziario” mi sussurrò. Ci si vergognava un poco a parlare di lei nel quartiere, era stata più volte visitata dai Vigili Urbani e su di lei pendeva addirittura una denuncia dell’Istituto d’Igiene Pubblica. “Cose grosse,” si premurò di sottolineare la signora, ritraendosi subito per paura di mostrarsi complice di quel reato. Uscii dal negozio esterrefatto: quale crimine aveva mai potuto essere quello di sfamare quelle piccole creature? “L’hanno presa di mira i vicini…” ci tenne a dire un vecchio signore seduto al bar, apparentemente indifferente nel parlare di un così “grande mistero”. Incalzò, invitandomi a sedere, nella speranza che le sue confidenze valessero un bicchiere di vino, che mi mostrò inesorabilmente vuoto, “qui in zona non la poteva vedere nessuno; dicono che tutti quei gatti e anche i piccioni, portino malattie e lei, nutrendo sia gli uni che gli altri, favoriva la loro proliferazione”. Disse quest’ultima parola arrotando la lingua, come a dar a questa un valore di cui comprendeva poco il significato ma che sicuramente faceva effetto e dava a tutto il discorso un valore “ufficiale”. “L’hanno vista raccogliere rifiuti nei cassonetti dell’umido, per recuperare avanzi di cibo con cui preparare il pranzo per quei quattro gattacci spelacchiati…”. Gli avevo già ordinato il bicchiere e quindi, ottenuto il suo scopo, ormai parlava a ruota libera senza curarsi del mio parere e del mio dichiarato e preoccupato interesse per la Gattara. “Speriamo che si sia tolta dai piedi definitivamente…” aggiunse, scolandosi l’ultimo sorso, forse pentito di essersi lasciato andare perdendo così l’opportunità di un bis. Il barista si presentò sulla porta, al fine di riscuotere il dovuto, guardandomi con leggero sospetto. “E’ parente lei? Chiedo, mi scusi, perché quella donna mi ha lasciato due litri di latte da pagare…”. Tirai fuori una moneta di carta per saldare il debito aggiungendo: “Non sono parente, diciamo così un conoscente… “Prenda il dovuto, così non resta anche questa terribile condanna sul suo capo”. Lo dissi molto seccato e, appena ricevuto il resto, girai le spalle senza nemmeno salutare. Quell’angolo di via, la piccola piazzetta su cui poggiavano le sedie del bar e quelle poche persone incontrate tutto a un tratto mi apparvero sgradevoli, lontane, impure. Le sentii così lontane dal sapore magico che il parco vicino gli aveva sempre donato, rendendo quel luogo un piccolo paradiso in una città frenetica e superficiale. Fu una sensazione strana, una delusione che lentamente si impossessò di me mostrandomi una realtà che non avrei mai immaginato. Quella che credevo una comunità dal sapore di un tempo, si era mostrata ciò che era, per nulla distaccata dal grande caos che la circondava. Eppure la “Gattara” mi aveva parlato così bene del salumaio, che le teneva i ritagli, il barista dal quale comperava a credito il latte e lo pagava a fine mese come riscuoteva la pensione. Forse la vera magia la creava lei, “la signora dei gatti”, ricoprendo di polvere magica chiunque incontrasse. Mi avviai verso il metrò di fretta, dovevo andare in ufficio e per tutto il giorno i miei pensieri tornavano a quei piccoli momenti passati sotto le fronde a chiacchierare con l’anziana signora percependo, attraverso lei, i pensieri di quei nobili felini in attesa di rifocillarsi. “Chissà che fine avrà fatto Ettore, il micio della cartomante?”. Mi sorpresi a chiedermi a voce alta, mentre la segretaria di fronte mi guardò stupefatta! “No, scusa, era una riflessione su… cioè… pensavo a un gatto del mio quartiere che non vedo più…” farfugliai confuso mentre lei mi guardava sorridendo, tornando alle sue scartoffie. La guardai di sottecchi, chissà, forse lei a casa accudiva un micio, che trascorreva il pomeriggio al caldo sul termosifone aspettando il suo rientro. Magari ci dormiva pure con il gatto e la sera chiacchierava con lui mentre questo le faceva le fusa in grembo. In fondo cosa sapevo di quella donna, cosa sapevo della vita di tutti i miei colleghi? E dei loro pensieri? “Hai mai pensato di prendere un gatto?” mi chiese Silvia, posando i fogli sulla scrivania e guardandomi diretta. “No, perché?”. “No, dicevo così per ciò che hai detto prima…ti ho visto nei giorni passati che mentre parlavi al telefono scarabocchiavi sul notes… una testolina rotonda con i baffi e una lunga coda… mi sembra inequivocabile. Oggi poi con questa uscita…”. Sorrise. “Ti ripeto la domanda, hai mai pensato di prendere un gatto?”. Rimasi a guardarla, mi aveva messo all’angolo. Ci avevo mai pensato? Esaminai tutti i pensieri avuti guardando la Gattara, quelli di questi quindici giorni quando, passando per il parco, non la incontravo come tutti i giorni, fermandomi a carezzare i mici in attesa del pasto. Come un fiume in piena le raccontai tutto, di Ettore, di Gulliver, il suo preferito e della dolce Melina. Lei sorrideva, annuendo per ogni mio entusiasmo nel racconto, quasi conoscesse ogni cosa che stavo per raccontarle. Terminai con il raccontare della Gattara, dei suoi problemi di salute e nella delusione a scoprire un mondo che credevo incantato, così crudele e indifferente. Restò a fissarmi un poco e poi, poggiando una mano sulla mia spalla, sentenziò: “Caro Guido, si, credo tu sia pronto per prenderti un gatto!”. E rise, tracciando con la mano nell’aria un segno della croce, che significava “sei fritto!”. “Benvenuto tra i gattofili, signor Guido tutto di un pezzo!”. C’era qualcosa che non conoscevo di me? Mi guardai attorno, con un sorriso di cortesia imbarazzato. Anche gli altri nell’ufficio, così mi sembrò, mi stavano guardando con curiosità. Per qualche sconosciuta investitura, grazie a un misterioso fluido universale, ignaro, a mia insaputa, il mondo dei felini mi aveva prescelto e da quel momento divenni cosciente che sì, assolutamente, desideravo appartenere a un gatto. Già, perché nel comune parlare, tutti noi chiediamo: “Hai un gatto?”. Ma questo fa parte del parlare quotidiano, superficiale. Chi “ha” un gatto sa bene che in realtà siamo noi che apparteniamo a loro, e neanche sempre. I gatti non bramano l’amore di chiunque, ma solo quello di chi amano. I gatti non vengono scelti, ma scelgono. Mentre venivo a conoscenza di queste realtà illuminato dalla mia presa di coscienza, fingendo ancora indifferenza con Silvia, le chiesi: “Ma cosa te lo fa pensare? Solo perché ti ho raccontato della Gattara?”. Lei tornò a sedersi e seria mi disse: “Ora tu pensa bene a quei gatti sotto il castagno? Chi pensi abbia bisogno di te? Chi vorresti stasera, al ritorno da qui dentro, passare a prendere e dividere con lui la tua casa?”. Preso in contropiede farfugliai. Pensai a Ettore, fiero, dal pelo lucido. Sicuramente avrà rinunciato ad alcuni dei suoi principi e avrà trovato rifugio in una bella casa; lui sa bene come comportarsi e un certo gusto per la vita comoda e agiata non lo ha mai abbandonato. Gulliver, non Gulliver no. Non gli sono mai stato simpatico. Quello è il preferito della Gattara e lui con me non ci sarebbe stato nemmeno un giorno. “Melina” esclamai, visualizzando il suo musino dolce e il suo incedere sinuoso. Mi mancava incontrarla la mattina e sentire il pelo morbido del suo manto mentre si strofinava sulle gambe, incrociando i miei passi. La sua vita tormentata, i tanti mici che aveva cresciuto le avevano lasciato un ventre abbondante reso ancor più importante dal folto pelo.

“Ecco, non ti resta che passarla a prendere, stasera come torni!”. “Ma non è più li, saranno almeno quattro o cinque giorni che non la vedo…”. “Beh, chiamala, lei arriverà di sicuro. Ti ha aspettato tanto, non sarà sicuramente lontana…”. “Quando arrivi l’accarezzi, la sollevi piano e vedrai che ti fa le fusa. Quindi piano vai verso casa e la posi a terra. Lascia che studi bene la tua casa, ci sarà una cozzaglia di odori che non conosce, ma tra questi ci sarà il tuo e questo per lei è rassicurante. Fidati, è la “tua” micina. Vedrai che non te ne pentirai!”. “Ah,” aggiunse mentre rovistava nella borsetta da cui estrasse una scatoletta di metallo con sopra l’immagine di un gatto che si lecca i baffi, “dalle questo da mangiare per stasera. Poi prendi un appuntamento da un veterinario, è meglio che la fai visitare. Potrebbe avere i vermi. E poi… va beh, domani ti accompagno in un negozio e prendiamo assieme ciò che serve affinché la convivenza sia possibile e tranquilla. Mica vorrai nutrirla ad hamburger e birra come fai tu!”. Compiaciuta mi sorrise. “Ma allora anche tu hai un gatto?” le dissi indicando la scatoletta che mi aveva dato. “Benvenuto tra i “posseduti”, signor Guido. E benvenuta a Melina… me la farai conoscere…”. Misi la scatoletta nella borsa del computer e tornai a sedere al mio posto di lavoro. L’investirura aveva avuto termine, ora ero un Gattaro anche io.