Meglio un giorno da Papillon che cento da Remigio

Lepre coniglioDi quella famiglia non ne potevo proprio più, lo dico con tutto il cuore. Non mi sono piaciuti già dal primo giorno che li ho visti entrare nel negozio, tutti e tre. Lui, il papà, guardandosi in giro senza neanche salutare, si era diretto, affascinato, agli acquari di pesci tropicali, i piranha e neanche a dirlo subito dopo verso quelli dei serpenti. La moglie aveva per mano la bimba. Un bel cappotto di lana e al collo, terribile a dirsi, una pelliccia di qualche sventurata bestia che le teneva caldo. Poi lei, con le trecce lunghe annodate al fondo con un fiocco, lo sguardo da piccola fetente viziata e due lenti grandi come tutto il viso che si diresse al recinto dei cuccioli di cane. Anche loro, che notoriamente sono affettuosi con tutti, alla vista di quella peste si radunarono in un angolo”. “No! No, tesoro, non prendiamo un cagnolino…son troppo vivaci. Siamo venuti per un coniglietto…” disse la madre rivolgendosi verso la commessa. Questa, con un sorriso falso come l’oro di Nizza, richiamò l’attenzione della bambina che si portò verso il mio recinto, inginocchiandosi. “Che buffo, ma sei proprio carino…” disse mentre allungava una mano tra le sbarre per potermi toccare. Io lo sapevo da subito che quella non sarebbe stata la mia casa, non mi piacevano per niente. “Che carino sto coniglietto…” replicò la peste, guardando la madre che si accorse di quanto la mia pelliccia assomigliasse a quella che aveva attorno al collo. Poi, “buffo coniglietto” a chi? Io ero un Argentata di Champagne, una razza davvero pregiata. Zampe lunghe, fibrille sempre attive e un manto che neanche il nome gli rendeva merito. Maschio, tengo a dirlo, e con tutti gli attributi in regola. Un caratteraccio, l’ho sempre saputo, già con i miei fratelli avevo sempre qualcosa da discutere e spesso i momenti di gioco si trasformavano in rissa. Son fatto così, ho polso, e questo poi mi tornò utile nei momenti difficili. Insomma, mi comprarono, per un prezzo tra l’altro con cui avrebbero potuto portar via un bel cagnolino, lasciandomi in pace li. Ero accudito, pulito e anche coccolato. La padrona del negozio era una vera amante degli animali, come non ce ne sono molte. Anche i criceti parlavano molto bene di lei, nel loro dialetto, ovviamente e i gattini, dispettosi, le tendevano agguati sfilacciandole le calze. Ma lei non perdeva mai la pazienza, sempre sorridente. Mi prese per le orecchie e, mettendomi in una scatola con tanti fori per respirare, mi diede un ultimo bacio sul naso. Attraverso i fori vedevo il riflesso degli occhiali di Anita, la bimba che cercava di sbirciare all’interno. Ogni tanto con l’altra mano batteva sul cartone… Che fastidio, un rumore che mi faceva tremare le orecchie. Ero agitato, non avevo idea di dove sarei finito. Sporcai, si, sporcai senza neanche accorgermene. Capii che in realtà avevo paura… Parlavano forte, in auto, e la bimba seduta sul sedile posteriore, dopo aver allargato un foro, cercava nuovamente di toccarmi sulla testa. La loro casa era molto grande e per me avevano riservato un cartone dai bordi alti come cuccia. Dentro nulla, solo alcuni batuffoli di cotone e qualche foglia di insalata. “Cominciamo bene”, pensai. Questi non sanno nemmeno da che parte cominciare con un coniglio. E l’acqua? E il mangime e la sabbia per fare pipì e cacca? In che mani ero finito. Un disastro. Mi adattai a quella foglia di lattuga per altro appassita. La bimba dopo infiniti tentativi riuscì a prendermi un’orecchia tirandomi fuori dalla scatola. Dalla padella alla brace. Pretendeva che giocassi con lei, mettendomi tra le braccia di una bambola di pezza, nascondendomi sotto un cuscino del divano, rincorrendomi mentre mi davo alla fuga, disperato. Un inferno, posso dirlo. Poi la cosa che mi inquietava di più era quella pelliccia cucita sul cappotto di lana della mamma. Quella proprio non la digerivo. La notte sognavo che avesse due occhietti e che mi sorridesse. “Prima o poi finirai anche tu così…” mi tormentava nel sogno. Certi incubi da cui mi svegliavo singhiozzando. La goccia che fece traboccare il vaso fu una domenica che a casa venne la nonna. Aveva portato con sé una teglia. Provate a indovinare cosa c’era dentro, cucinato? Coniglio, si , proprio coniglio…!!! Mi prese un tremore che non riuscivo a controllare, incomprensibile pur ben sapendo che quello non era il mio destino. Io ero lì per far divertire la viziatella. Però l’istinto, quello che senza che nessuno ti spieghi nulla ti informa come fare la toiletta, mangiare, fare figli o riconoscere il pericolo, mi dava segnali inequivocabili. Fuggire, devi fuggire ripeteva in continuazione. Nella notte elaborai un piano. Era estate e lasciavano la porta della cucina aperta, con la zanzariera abbassata. Un ostacolo che in meno di dieci minuti avrei superato, rosicchiandolo. Il vero problema era il cartone della mia cuccia, molto duro. Beh, non era necessario scappare quella notte stessa. Avrei iniziato a consumarlo un po’ per volta, nascondendo il misfatto con il cotone che ora era più abbondante del primo giorno. Avevo però al massimo tre giorni di tempo per fuggire, la mia gabbia veniva pulita appunto ogni tre dì e si sarebbero accorti del buco. Cominciai subito, appena tutti andarono a dormire e la vegliarda tornata a casa sua. Iniziai a rosicchiare energicamente. Cavoli, facevo un rumore che la scatola amplificava. Piano Remigio, mi ripetevo, con calma sennò se ne accorgono. Già, mi ero dimenticato di dirlo, Remigio era il nome che la piccola peste mi aveva dato. Che nome stupido. Chiamami Zorro, Rabbit oppure davvero indicato in questo momento Papillon. Ma Remigio, per carità. Un nome da cameriere… Lavorai tutta la notte, ero a metà dell’opera. Sarei riuscito a finire la notte seguente. Mi feci un lungo sonno, mentre era mattina e tutti si preparavano per uscire. Chi a scuola, chi al lavoro. La voglia di accelerare i tempi era incontenibile ma il piano prevedeva che sarei scappato il terzo giorno e così doveva essere. L’ultima notte finii il buco alle ore una. Grande anticipo sul mio programma. Uscii dalla tana, poi rientrai. Ero poi così sicuro di cosa avrei trovato la fuori? In fondo non sapevo dove trovare mangime, per esempio, o foglie di lattuga fresche. E poi i gatti, i cani, che nella notte girovagano in cerca di prede? Di quelli avevo sentito racconti terribili al negozio. Uscii una seconda e poi una terza volta. Mi guardai attorno. Ma potevo fare una vita così? Che senso avrebbe avuto la mia esistenza tra quelle quattro pareti di cartone, tormentato da una pestifera con le trecce tutto il pomeriggio? No, volevo essere un Papillon, un Rabbit, non un Remigio dagli occhi da pesce bollito. Partii deciso, verso la cucina. La rete, l’ultimo ostacolo prima della libertà era lì. Il mio destino, il mio futuro era oltre quella sottile trama, anche se mi sembrava un muro invalicabile. Poi mi venne in mente il cappotto di lana, appeso nell’ingresso, e quella pelliccia argentata protagonista di mille incubi. Comincia ad aggredire la trama di nylon. Come vidi il primo varco, ancora troppo stretto, venni preso dalla smania di uscire. Un filo, un altro e un altro ancora. Feci un buco attraverso il quale ci sarebbe passato pure un cinghiale. Una brezza fresca piena di profumi sconosciuti entrò. E io uscii, senza più nessuna esitazione. Fuori, fuori. Corri, corri, vola nel prato di erba alta, sconosciuto, pericoloso ma dal sapore della vita vera, libera. In un attimo fui fuori dal recinto del giardino e poi seguendo soltanto la guida profonda dell’istinto, mi allontanai nella radura. Che paura, un poco Remigio lo ero ancora e lo sarei stato per tanto tempo. Eppure le gambe andavano da sole, mentre la luna faceva risplendere la mia livrea argentata. “Per di qua, vieni veloce, c’è la volpe in giro…” Sentii una voce che parlava la mia lingua, anche se l’accento era smorzato, tronco. Mi diressi verso quell’ombra, due lunghe orecchie da coniglio, ma molto più slanciate. “Seguimi…” disse. Senza indugio mi accodai, entrammo in un tronco cavo, totalmente buio. La luce della luna non riusciva ad entrare e del mio nuovo incontro percepivo soltanto l’odore. Io sapevo di sapone neutro, a casa mi lavavano almeno una volta al mese. Il padrone di casa cominciò a starnutire. “Ma dove sei stato, che odoraccio…”. Lui invece aveva un odore acre, di selvatico. Ma, incredibilmente, sapeva di coniglio. Poco lavato, d’accordo, ma di coniglio. Filtrò un po’ di luce, la luna si era abbassata sull’orizzonte. Incrociai i suoi occhi. “Che orecchie lunghe…” esclamai. Lui sorrise, “Che pelo luminoso hai tu…” mi rispose. Iniziammo a dialogare. Alcune parole non le capivo, era un accento davvero strano, ma passammo la notte a raccontarci della nostra vita. Era una lepre, e le sue lunghe zampe posteriori ne erano la conferma. Viveva da sempre in quel tronco. Era un rifugio sicuro, l’aveva protetta dall’agguato di una volpe più volte e lì si era rifugiata quando il falco che scendeva dalla collina a cacciare la mattina l’aveva individuato a pascolare nell’orto vicino. Poi il sonno prese il sopravvento, crollai come un sasso. La notte volò via in fretta. “Remigio, Remigio…” Fu la voce stridula della bambina che ci svegliò quando il sole era già sorto da un pezzo. Lo confesso, per un attimo pensai di tornare verso casa. Mi sembrava tutto così tranquillo laggiù. Insalata fresca la mattina, la pazzerella che mi tormentava il pomeriggio, le notti con gli incubi ma senza pericoli reali. “Dai, vieni con me che andiamo a cercare qualcosa da mettere sotto i denti…”. Rabbit (lui si che aveva un bel nome) era fuori. Annusava l’aria, in cerca di pericoli imminenti. “Via libera, seguimi…”. Iniziò a trottare e io mi accorsi subito che non potevo competere con lui, era veramente veloce. “Aspettami!” implorai. Raggiunto un angolo appartato tra le rocce si fermò e guardandomi fisso mi disse: “Ascoltami bene, Remigio. Ti devi dare una mossa, usa quelle zampe come ti compete. Altrimenti fai una fine miseranda. Qui fuori c’è la fame. Ogni animale con gli occhi davanti cerca gente come noi, per mangiare. Sappilo. Gatti randagi, cani, volpi. Anche i lupi, lassù in alto. Non c’è da scherzare. Sei libero e la libertà ha un prezzo caro che spesso costa la vita. E’ la legge del bosco. Potevi startene al calduccio in quella casa, se questa vita non è per te. Torna se non te la senti, torna dalla piccola dalle trecce rosse. Sei ancora in tempo”. Era duro, ma sincero. Respirai profondo, ero o non ero un Argentana di Champagne? “Ti ricordo una cosa,” gli dissi guardandolo truce negli occhi, “Remigio ci chiami tua sorella. Ora il mio nome è Papillon, quello che è scappato, ok?”. Sorrise e voltandosi riprese a correre, io dietro. Finalmente arrivammo a destinazione, un orto pieno di verdura ancora da raccogliere, buona e fresca come non l’avevo mai assaggiata. Altro che quel mangime secco e insipido. Cuore di lattuga di prima scelta e poi delle carotine deliziose, una primizia. Eravamo felici come bambini e quando la pancia fu bella piena andammo sotto un albero, nascosti dalle poderose radici, per raccontarci di noi. “Com’è la vita in una casa degli uomini?” mi chiese Rabbit. Raccontai del negozio, di Rita la commessa, e mi vennero le lacrime agli occhi. Poi del primo giorno nel cartone, del secondo e così via. La pelliccia sul cappotto, il coniglio alle patate la domenica. Lui sembrava incuriosito piuttosto della descrizione del divano, con i soffici cuscini. E di quelle palline di cotone con cui coprirsi la notte. In realtà mi indispettì quel suo modo di contestare la mia scelta. “Se vuoi vai tu” gli dissi. “Resisti un giorno, con il caratteraccio che hai. E poi tu finisci di sicuro in pentola, il primo fine settimana, appena arriva la vecchia!”. Si fece una grassa risata. “Ma dai, stupido. Io sono nato libero. Come potrei rinunciare a questo sole, questo verde. E a quel maledetto di un falco…!” terminò di parlare, accucciandosi. “Lo vedi, quello è il nemico numero due, dopo la volpe”. “Stai fermo, mi raccomando. Non muovere neanche un baffo. Quello è in grado di vedere un topolino a un chilometro…”. Volteggiò nel cielo per lungo tempo, allargando il cerchio, per poi restringerlo concentrandosi su un punto nella radura. A un certo punto si buttò a capofitto verso il terreno, sparendo per un attimo nell’erba alta. Poi riprese il volo e tra le zampe stringeva un topolino ormai passato a miglior vita. “Ecco, questa è l’altra faccia dell’essere liberi, caro il mio Papillon. Per oggi è a posto, ma domani ha di nuovo fame”. Tra di me pensai perché non si fosse tutti erbivori. Sarebbe stato tutto più semplice. I falchi avrebbero avuto le fronde degli alberi, le volpi l’uva, la frutta e noi si sarebbe potuti pascolare in libertà. Forse nell’evoluzione del mondo qualcosa era andato storto o forse c’era qualcosa che ancora non riuscivo a capire. Ritornammo al tronco con prudenza, stava scendendo la sera e di li a poco era l’ora delle volpi. Passò l’estate, venne il gelo. La neve, aveva il mio stesso colore e anche il pelo di Rabbit cambiò tonalità. Cercare cibo era diventato un’impresa. Giravamo giornate intere rimediando qualche radice rinsecchita. Io gli insegnai la strada per raggiungere i bidoni della spazzatura; quando passavano a ritirarli cascava sempre qualcosa da quelli dell’umido. Non era un granché, ma c’era tutti i giorni. Una sera ci fermammo a sbirciare dentro la mia casa di un tempo. Erano tutti in salotto a guardare la televisione. La bimba teneva sulle ginocchia un gatto dal pelo lungo che si lasciava accarezzare, facendo le fusa. Nel camino la legna scoppiettava, illuminando con i suoi bagliori la stanza, alternandosi ai lampi che lanciava lo schermo della tv. Non c’era più lo scatolone, al suo posto una grande cesta di vimini con un morbido cuscino dentro. Rabbit mi si avvicinò, sussurrandomi: “Rimpianti?”. Mi girai verso il bosco, la notte era buia e la, in mezzo a quella candida neve forse c’era Fox che aspettava il nostro rientro. Lo guardai, ammirai come il primo giorno quelle lunghe orecchie e le lunghe zampe, agili e scattanti. Era davvero una gran bella lepre. “Stavolta vado avanti io”, dissi, “seguimi tu”. Poi, un attimo prima di partire aggiunsi: “Ricorda, meglio un giorno da Papillon che cento da Remigio”. E allungai il passo, lasciando inconfondibili tracce sulla fresca coltre di candida neve.

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