Ottavia, dentro non sai di niente…

Sapeva che doveva entrare tra le prime, sul pullman, se voleva trovare posto a sedere. Andava sino al capolinea e stare un’ora e più in piedi, dopo una giornata passata al lavoro era l’ultima cosa che desiderasse. Per questo aveva studiato una strategia, mentre aspettava che il 25 arrivasse; sapeva con un colpo d’occhio riconoscere l’autista e da questo sapeva il punto dove avrebbe fermato il mezzo. Si piazzava nei pressi e si faceva trovare proprio lì, quando le porte automatiche si sarebbero aperte per riversare all’interno tutta quella umanità scalcitante fatta di operai, studenti, casalinghe, pensionati, affamati di casa, di riposo, delle loro quattro mura comunque confortevoli. Tenendosi al mancorrente, decisa, saliva i due gradini e veloce occupava il primo posto libero che individuava, possibilmente vicino al finestrino, possibilmente l’ultimo prima dell’uscita. Si aggiustava la gonna in modo che le gambe fossero compostamente coperte e poggiava la borsa nera di vitello in grembo.
Lei stessa sorrideva di quel suo rituale, completato nell’aggiustarsi i capelli scuri con qualche segno di neve alla base, raccolti in una coda tenuta assieme da un elastico di spugna rossa e così facendo, con un sorriso molto nobile ed elegante, volgeva lo sguardo a destra ed a sinistra, senza fissare punto alcuno.
Il suo viso era bello, nonostante la sua età non fosse più quella delle tante ragazze che attiravano gli occhi incandescenti degli uomini dallo sguardo assatanato, alla ricerca di un particolare che stuzzicasse la fantasia. Spesso uomini maturi cercavano di incrociare il suo sguardo, insistentemente. Non in modo volgare, non le era mai accaduto. Il suo portamento, i suoi lineamenti, erano sempre stati molto eleganti benché semplici e la sua bellezza era un qualcosa di sottile, di profondo. Chi le si era avvicinato lo aveva sempre fatto proponendo un aperitivo od un caffè, mai nulla di volgare.
C’è un sottile equilibrio che mantiene in bilico i rapporti tra uomo e donna. Lei ne era ben al corrente, erano già cinque anni che viveva da sola.
Suo marito si era invaghito di una collega di lavoro, ovviamente molto più giovane di lui. Lavoravano entrambi in una grande catena immobiliare e lei aveva capito già dal primo incontro che la stoffa di entrambi era stata preparata dallo stesso sarto. Ognuno di noi vive il suo tempo in due luoghi, il lavoro e la casa. Uno dei due diventa il luogo migliore, quello dove il nostro spirito si sente a suo agio, dove in realtà vorrebbe stare sempre. Alcuni passano la giornata in ufficio, tra computer, scartoffie, clienti, con una parte della mente che passeggia tra le mura domestiche, o con la famiglia a passeggio la domenica pomeriggio. Altri, al contrario, vivono i momenti trascorsi in casa ripassando il lavoro svolto o programmando quello per il giorno dopo. Si, parlano, guardano la televisione, cenano e alle volte fanno anche l’amore. Ma una parte di loro è sempre pronta a sfogliare l’agenda, a studiare un preventivo, anche se dicono “Amore” nudi nel letto. E suo marito era così, la venuta nell’ufficio di Mariarosa, fresca trentenne rampante dai capelli lisci e castani fu semplicemente la celebrazione di quello che Ottavia sapeva da tempo; Mario l’aveva spostata per dimenticarsela nelle pieghe del matrimonio dopo neanche due anni. “Non hai nessuna ambizione” le ripeteva, “perché dentro non sai di niente…”. Lei lo guardava con occhi increduli, non poteva pensare che quell’uomo fosse lo stesso con il quale aveva passeggiato in riva al mare, la sera, pensando alle parole con cui accompagnare il canto del mare. Quelle parole la ferivano a morte, ne aveva sentite altre da bambina; suo padre la sera rincasava, aveva sempre un bicchiere di troppo nell’alito. Non sopportava di trovarla seduta a leggere invece che fare qualcosa per la casa. Ma lei aveva sistemato ogni cosa, la casa era in ordine e quei meravigliosi romanzi che la zia Rosa le aveva portato erano la compagnia migliore che potesse avere. Leggeva di tutto e tutto la incantava. Sognava il giorno in cui un uomo dallo sguardo dolce si sarebbe innamorato di lei, sconfiggendo il drago di cui era prigioniera per portarla lontano, vicino al mare, nel suo castello dove i delfini erano maggiordomi e le sirene dame di compagnia. Sapeva che sarebbe accaduto, che un giorno quel sogno avrebbe smesso di essere tale. L’alcool si portò via il drago, sua madre era già andata via da un pezzo. Ancora adolescente andò a vivere dalla zia Rosa. Ebbe pace, questo si. Non affetto, non quello che il suo cuore cercava dalla più tenera età. Si fece bastare quel poco, come d’altronde aveva fatto in tutti quegli anni. Gli mancava la voce bassa e rauca di suo padre, anche se per riceverne un rimprovero. Rosa aveva un amante, un uomo sposato che la andava a trovare ogni tanto. Quando vide Ottavia rimase incantato dal suo sguardo dolce di ragazza veramente acqua e sapone e ne riconobbe immediatamente lo sguardo da futura regina. La volle con loro certe sere al cinema. Al contrario di quel che si può immaginare non fu mai sgarbato con lei, né troppo gentile, da dar luogo a malintesi. Era un vero signore, dentro l’animo, e quando venivano le festività portava sempre anche un piccolo regalo per lei. Qualcosa di scelto con cura, che fosse all’altezza della signorilità di Ottavia ma non troppo audace o di eccessiva importanza da destare turbamento, né in Rosa né in Ottavia stessa. Spesso si trattava di un romanzo appena uscito, alle volte cioccolatini torinesi di qualità, o biscotti di mandorla siciliani. Spesso la sera lei fantasticava su questo uomo, immaginando che avrebbe potuto essere il suo vero padre, il genitore che si meritava un animo limpido come il suo. Non lo vedeva con zia Rosa, cioè nei suoi sogni lei non era la sua madre ideale. Ma la sua fantasia sapeva accomodare tutto e zia Rosa vestiva un abito a grandi fiori, dai colori tenui, che con quel grande cappello azzurro la facevano proprio elegante.

Un giorno l’amante divenne compagno fisso e per Ottavia non ci fu più posto in quella casa. Nessuno in realtà le disse qualcosa di esplicito; ma lei era molto sensibile e capì subito che era giunto il momento di affrontare il mondo senza paracadute. Mai ne avesse avuto uno. Portò via con se una valigia di vestiti, un grosso cartone con tutti i suoi romanzi, un dolore in più da mettere a posto.

La sua vita era scorsa veloce e quel principe azzurro non era passato, soltanto qualche imbroglione di corte, un venditore di case arrivista e tanti romanzi d’amore a lieto fine. Di quelli si poteva fidare, sapevano prendere per mano la sua fantasia e portarla lontano, in luoghi che solo l’immaginazione era in grado di concepire. Luoghi in cui la sua anima poteva vestire a suo piacere, danzare e fare l’amore. Già, fare l’amore. Chissà se poi lo aveva mai fatto davvero. Anche con Mario, quelle sere in spiaggia la voglia si mescolava alla paura di essere visti e quando poi, sposati, non c’era più nessuno che potesse spiarli, spegnevano la luce per sentirsi estranei. Quell’odore selvatico che aveva la infastidiva, quel suo imporle il sesso in ogni dove la rendeva irrequieta. Eppure, eppure doveva esserci un modo, poteva essere diverso. L’amante di sua zia sembrava diverso, non li aveva mai sentiti alzare la voce nel letto, erano solo mugolii di piacere. Sentiva il rumore dei baci, immaginava le calde carezze sul ventre. Pensava che quel grande uomo con la barba ben scolpita sapesse di dolce, di buono. Che forse era lui l’uomo dei sogni.

Aprì il libro al segno dove lo aveva lasciato la mattina, mentre il pullman  sballottava tutti senza ritegno. Si accorse, dopo qualche fermata, che oltre la copertina, verso il fondo due occhi discreti la stavano fissando, accompagnati da un cortese sorriso. Era un uomo, di buon aspetto, con una cravatta di lana a scacchi ed i capelli bianchi, più che brizzolati, con una valigetta di pelle di vitello che si azzardava a seguire con lo sguardo i contorni del suo viso e, dopo un attimo di distrazione, quello sguardo le cominciò ad arroventare la pelle. Si aggiustò i capelli, lo guardò un attimo. Lui le sorrise. Aveva i baffi che con la lingua percorse delicatamente, ma non con gesto volgare, così le parve.
Tornò a leggere ma il peso di quello sguardo l’avvolse tutta e non finì il capoverso che si trovò obbligata a riguardare verso lui. Per un attimo pensò che un personaggio della sua lettura fosse inavvertitamente sfuggito dalle pagine per materializzarsi ai suoi occhi, come in un sogno. Dietro a questo pensiero si lasciò andare e sorrise a sua volta, con discrezione. Ancora due fermate e l’uomo si alzò, per sedersi al suo fianco, nel posto lasciato oramai vuoto. Sul mezzo non c’era quasi più nessuno e questo gesto non lasciava spazio a dubbi.
Ottavia chiuse il libro ed alzò lo sguardo, fissandolo. I loro volti non erano distanti, ne sentì l’alito, fastidioso. No, non era uscito dal suo libro, la fantasia l’aveva ingannata ancora una volta. Lui si accorse del rifiuto ed allungò una mano, per poggiarla tra la gonna ed il ginocchio. Senza staccarle gli occhi di dosso allargò il palmo, lambendone la coscia. Si alzò di scatto per scendere alla fermata.
Frenata del pullman, porte aperte, saltò rapidamente giù. Le mancava ancora poco più di un chilometro, lo avrebbe fatto a piedi. Ma lui rapido la seguì e si accodò con passo rapido. “Aspettami, cosa ti credi… Ho capito che ne hai voglia anche tu, ho visto i tuoi sguardi languidi”. “Fermati, non fare la cretina, ci fermiamo un attimo qui, nel parco…”.
Ottavia accelerò il passo, aveva paura. Aveva sentito quella mano forte sulla coscia, sicuramente poteva fare del male. Lui le era dietro, una mano le afferrò la spalla per girarla. Le mani le raggiunsero i seni, vide l’uomo con i pantaloni aperti ed il sesso fuori. Cercò di andare indietro, s’inciampò e cadde e lui in un attimo le fu sopra. Cerco di baciarle il collo, sentì la lingua umida correre sull’orecchia, le mani che cercavano di alzare la gonna e strappare i collant.
Era gelata, non riusciva ad urlare, tutti gli uomini della sua vita, suo padre dal fiato puzzolente, il sogno elegante dell’uomo di zia Rosa, suo marito commerciante di inganni, tutti, le stavano addosso cercando di portarle via l’ultimo sogno. Con la mano toccò la borsa che si era rovesciata a terra ed afferrò il libro che stava leggendo, quel libro spesso, pesante e dalla dura copertina di cartone. Quel libro, uno dei tanti romanzi dai quali aveva sognato veder comparire il suo principe azzurro e che anche questa volta l’aveva ingannata. Con tutta la forza che aveva in corpo, dirigendo lo spigolo rinforzato di cuoio verso l’occhio del porco, cercando di fare tutto il male che le fosse possibile. Ed il colpo arrivò a segno, perché l’uomo si riversò di lato urlando, intontito ed incapace di rialzarsi.
Ottavia raccolse in un attimo la borsa, le chiavi di casa ed il portafoglio e si mise a correre con tutta l’energia che aveva in corpo. Piangeva, ansimava e correva, correva veloce come una gazzella. Non voleva pensare a nulla, raggiunse la sua via, il suo portone. Lo aprì, salì senza fiato le scale e si barriccò in casa, ansimante, in lacrime.
Aveva capito che dentro quei libri non si nascondeva nessun sogno, nessun principe azzurro. Che dei suoi romanzi si poteva fidare solo se avevano una robusta copertina di cartone, molto spessa. E così degli uomini e dei loro sorrisi.

 

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