Quando il pomeriggio di Natale, dopo aver pranzato con i miei genitori a Bordighera, decidemmo di rientrare a Torino passando prima da Mentone a goderci un poco di quel sole d’inverno che solo la riviera sa regalarci, non potevamo certo immaginare che il tempo, in Piemonte, si era dissociato da quell’alta pressione favorevole e stava regalando un giorno di Natale con i “fiocchi” come non se ne vedevano da tempo. Con mia moglie e Marcello, nostro figlio di sei anni, ci attardammo sulla passeggiata a mare, vittime delle giostre a cui Marcello non sapeva resistere. Poi quando i raggi del sole cominciarono ad allungare le nostre ombre indicandoci che era ora di rientrare, decisi di raggiungere il Colle di Tenda passando per il Colle di Sospel attraverso una strada tortuosa e impervia ma piena di fascino. Guardando verso i monti le nuvole bianche e grigie annunciavano che presto anche li il tempo sarebbe cambiato, per questo ci affrettammo a partire, esausti ma felici di quella giornata ricca di emozioni. Una volta in mezzo alle montagne, risalendo da Menton, il tempo cambiò in fretta e cominciarono a scendere le prime gocce d’acqua che in breve, man mano che la quota aumentava, si trasformò in neve. I prati cominciarono ad imbiancarsi e le gomme antineve finalmente iniziarono a trovare pane per i loro battistrada pronunciati. Una curva dopo l’altra anche il fondo della strada diventò tutto bianco; li in altura era già parecchio che nevicava. Come in una pista da fondo non ancora battuta l’auto lasciava le sue tracce nella neve fresca e i rumori si attenuarono regalandoci la sensazione di un viaggio nel paese delle fiabe. La nevicata si trasformò in tempesta, probabilmente in quota le correnti umide e calde del mare si contorcevano con quelle fredde dei monti, giocando a rincorrersi e buttando fiocchi grandi come foglie ovunque. Era diventato buio, nessuno si avventurava per la strada e soltanto alcune luci lontane di casolari ci rassicuravano della presenza di qualcuno tra quei monti. Un tornante dopo l’altro, correvamo verso la vetta, unici pionieri di quella notte vestita di bianco. I fari illuminavano la bianca coltre e nelle curve il giallo degli antinebbia disegnava il bordo della strada con riflessi cristallini, i fiocchi gelati brillavano come stelline sull’albero. Mio figlio, dietro, giocava con alcuni suoi “mostri” di plastica, ignaro del suggerimento continuo ad ammirare quello spettacolo: è incredibile come sia difficile distrarre un bambino dai suoi giochi e ancor di più interessarlo al paesaggio. Eppure forse siamo noi che non ci accorgiamo come loro in realtà osservino con molta più attenzione dei grandi. Infatti, mentre si percorreva un tornante, lo sentii esclamare, mentre indicava nel prato a fianco: “Guarda pa, guarda due occhi nella neve!!!”. Eravamo quasi arrivati sul colle, mancavano ancora due o tre tornanti e, impegnato a tenere l’auto in careggiata, gli risposi distrattamente. “Fermati,” mi urlò nelle orecchie saltando in piedi sul sedile e indicando con la sua manina nel mucchio di neve fresca. I due occhi non erano da soli! Con loro venne fuori avvicinandosi all’auto, un cane che di quel mare di fiocchi aveva il colore, un cucciolo di cane che sembrava uscito da una fiaba. Due occhi a mandorla, tenuti socchiusi per il fastidio dei fari e un tartufo nero come naso che fiutava l’aria, alla ricerca di un odore conosciuto. Io, sono sincero, da sempre ho adorato i cani. Ci sono cresciuto assieme, così come con i gatti. Da loro ho imparato più cose che a scuola e tutti i sentimenti che ancor oggi animano il mio spirito hanno avuto per maestro uno di loro. Lealtà, paura, vittimismo e orgoglio. Voglia di libertà. Per ognuno di questi posso associare un ricordo, un avvenimento, in cui uno degli animali della mia gioventù ha dato il suo contributo spiegandomene l’essenza. Vedere quel cane sperso nella tempesta mi tolse ogni dubbio e fermai l’auto. Lui, avvicinandosi, sparì alla nostra vista e pensando si fosse rifugiato sotto di essa, aprii la portiera per scendere a cercarlo. Ma lui, anzi lei come ci accorgemmo ben presto, come vide quel varco aperto poggiò le due zampe anteriori nel veicolo e guardandoci uno ad uno, sembrò dire: “Eccomi qua. Che si fa?”. Io guardai mia moglie la quale con gli animali non aveva nessuna confidenza e neanche particolare piacere, l’espressione del suo volto non lasciava dubbi. “Bisogna trovare chi l’ha persa, per riconsegnarla!” disse in modo perentorio. Lei, la cucciola, ci guardò alternativamente. Sicuramente aveva capito che messa ai voti la sua presenza in auto, avrebbe avuto dalla sua il bambino e contraria mia moglie. Ebbi la sensazione che intuì subito che il mio voto sarebbe stato di poco conto e quindi iniziò a scodinzolare guardando Marcello e volgendo occhiate piene di tenerezza verso Ada. Ci sono momenti che sembra il tempo si possa fermare, i fiocchi arrestare la caduta a mezz’aria, i minuti e i secondi durare secoli. Soltanto gli sguardi, a questo punto tra noi quattro, iniziarono ad intersecarsi dicendo il non detto. “Ok, va bene, avete deciso voi, mi pare…” disse la mia metà un po’ seccata ma che in cuor suo non si sarebbe mai presa la responsabilità della decisione di abbandonare quella creatura a un destino così terribile. Per il cane fu un segnale inequivocabile e portò il resto del suo corpo a bordo, passando sulle mie gambe e saltando sul sedile posteriore non dimenticando un’occhiata riconoscente a chi aveva dato il via. Marcello la prese subito in braccio e sia il pelo fradicio che i giorni passati all’aperto riempirono l’aria di un odore inequivocabile. Prima che ci si ripensasse su, chiusi la porta e riavviai l’auto nella sua corsa. Il colle era a poche centinaia di metri. Mi bastava vedere gli occhi di mio figlio nello specchietto retrovisore per capire quale grande regalo gli aveva portato Babbo Natale. Mentre noi si iniziò a discutere stabilendo le regole per quel nuovo ospite, trattando infiniti compromessi e promesse reciproche, lei, la cagnetta, si accucciò in grembo a Marcello, concedendosi un sonno profondo che durò tutto il viaggio. Si passò dal dire: “Vediamo se c’è un bar aperto, magari qualcuno la sta cercando” a “Che nome gli diamo?” oppure “Il guinzaglio lo voglio nero e azzurro, la facciamo dormire in bagno, magari ha qualche malattia che non conosciamo, la mattina mi accompagna a scuola anche lei”. Una piccola babele, pensieri, emozioni, discordanti. Intanto nessun bar era aperto, nessuna luce nelle vicinanze, solo alcune case lontano con le luci spente. Beh, a oggi lo posso confessare, in realtà un cascinale in mezzo alla nebbia con una finestra illuminata l’ho visto, ma mi son guardato bene dal dirlo! Superato i colli e ormai nei pressi dell’autostrada, anche Marcello si era addormentato, poggiando la testa sul bracciolo e tenendo una mano sul ventre di quel batuffolo di neve i cui sogni sapevano finalmente di casa. Nonostante arrivammo tardi, il primo pensiero fu di liberarci dell’odore impregnate che la povera bestiola portava con sé. Riempita la vasca d’acqua calda, per primo lavammo nostro figlio, che a quel punto sapeva di selvatico come un cinghiale in calore e successivamente la cagnetta che, con sorpresa di tutti, gradì la cosa come se fosse sua abitudine fare la doccia ogni mattina. Poi, stanchi, andammo a letto, mettendo in bagno un morbido tappeto su cui far dormire Sospel. Si, Sospel, perché quello fu il nome che, tutti d’accordo, decidemmo di darle. Inutile dire che restò su quel giaciglio il tempo di farci andare a dormire. Iniziò a grattare la porta, a piangere e guaire. Povera piccola, aveva passato chissà quante notti da sola in mezzo ai boschi e ora che aveva trovato una famiglia, non voleva separarsene neanche un istante. Si accovacciò ai piedi del letto di Marcello, sul freddo pavimento di marmo, ignorando il tappeto di morbido cotone giallo. Per lei il problema non era dove ma con chi. Un pensiero che, grazie anche alla stanchezza per la giornata e l’ora tarda, fu chiaro e accettato da tutti. Prendere con sé un cane è una responsabilità irrevocabile; è come per un marinaio raccogliere un naufrago in mare o per un indiano salvare la vita a qualcuno: è per la vita! O si ha il coraggio di voltare le spalle subito, assumendosi l’onere di fare i conti con la propria coscienza, oppure è un impegno che dura sino a quando il ciclo di vita dell’animale giunge al termine. Difficilmente un cane sopravvive al padrone, la loro esistenza dura molto meno. Questo è un regalo che il Padreterno ha loro fatto: non potrebbero sopportare che il loro padrone muoia. Il contrario è quasi sempre meno drammatico!
L’indomani iniziò con questa nuova presenza in casa, una bella pipì nel bel mezzo del corridoio e una cacca simile a quella di una volpe nell’ingresso. Qualche urlo, qualche ripensamento e poi il pensiero che è solo questione di abitudine. Il veterinario la prese in consegna per gli esami di rito, la vaccinazione, i primi consigli sulla sua gestione. Era in piena salute, anche se aveva l’intestino pieno di ossicini, frutto dei giorni passati nel bosco mangiando chissà cosa. Poi, carezzandola con il piacere di chi fa quel lavoro per passione, l’attribuzione di una titolo che la poneva tra i cani di alto rango: “Questo cane è un Berger de Pirenes!”. Un cane ricercato dai pastori per le sue doti innegabili. Lei si voltò a guardarci come a dire: “Avete visto, mica un randagio qualunque”. Per noi non cambiava nulla, era diventata Sospel, una nuvola bianca dal naso a tartufo, sempre umido. Passarono i giorni, due mesi forse, e la convivenza in casa divenne di difficile gestione perché lavorando entrambi, doveva rimanere troppe ore da sola e al ritorno c’era sempre un piccolo o grosso danno che aveva fatto. Inoltre i vicini cominciarono a lamentarsi per i suoi guaiti in nostra assenza facendoci anche mandare una lettere dall’amministratore. Decidemmo così, con gran dolore, che avrebbe dovuto vivere altrove. Specifichiamo bene, non in un posto qualunque. I miei genitori continuavano a vivere al mare, in una casa con il giardino e, dopo un adeguato inserimento e un distacco progressivo, quella divenne la sua nuova casa, dove per altro avrebbe vissuto come una regina. Sospel crebbe, diventando una meraviglia. Il suo pelo, uscita dalla toiletta, la rendeva simile a una di quelle nuvole bianche e grigie che d’estate si presentano dai monti verso il mare, simili a panna montata. Era uno spettacolo e tutte le persone che la incontravano non potevano esimersi dal fermarsi a coccolarla. Quando andavamo a trovare i miei genitori per lei era una grande festa e, anche se mio padre era diventato il suo padrone, non si era dimenticata di quella notte di tempesta in cui ci eravamo incontrati. Gli anni passarono, i miei invecchiarono e purtroppo mia madre passò a miglior vita. Il nostro dolore fu anche il suo, passò dei giorni accucciata dove lei d’abitudine si sedeva a leggere. Nei suoi occhi a mandorla la tristezza era immensa. Perché noi siamo così importanti per un cane, perché quell’amore infinito di cui siamo capaci a ricambiarne solo una piccola parte è così profondo, essenziale? Non c’entra il cibo, non c’entrano le coccole o le cure. Un cane ama il suo padrone. Basta, solo quello. Sia che lo tratti bene, sia che lo tratti male. Poi venne il tempo per mio padre, dopo un paio di anni di malattia che trascorse a casa di mia sorella, lasciò questa terra pure lui. In quegli anni ripresi Sospel a vivere con me. Era diventata docile, sapeva stare da sola e la vita in città era per lei possibile. Quando mi spostavo in macchina per lavoro, o per andare alla casa al mare, tornava su quel sedile che l’aveva accolta la prima volta accucciandosi esattamente come aveva fatto quella notte. I suoi occhi dolci cercavano i miei attraverso lo specchietto dell’auto, poi si assopiva per tutto il viaggio. Forse sognava che al risveglio la sua vita, quelle delle persone che amava, potesse ricominciare ancora una volta. Forse, non lo so. O forse sapeva meglio di me che la vita scorre, come l’acqua in un fiume per andare verso il mare, l’immenso mare in cui tutto si raccoglie, per l’eternità. Un giorno triste, molto triste, lei era nella casa al mare, con i miei figli, mentre io ero lontano a lavorare. Era il 14 di agosto. Marcello mi telefonò, dicendomi che il cane stava male, molto male. Aveva già dato segni di disturbi al cuore, prendeva una terapia in pillole mescolate con una pallina di carne cruda. “Papa, fatica a respirare, guarda sempre il cancello, credo che aspetti che tu arrivi”. Io scesi al mare per il ferragosto, quella notte stessa. Quando arrivai la vidi venirmi incontro a fatica, per poi sdraiarsi sfinita. La portai in casa, sul mio letto. La mattina scese in giardino e la vidi allontanarsi verso l’angolo lontano. Arrivata al fondo, vicino il muretto in pietra di confine, cominciò a scavare, cercando di mettere il muso dentro la buca. La presi in braccio e scesi in città a cercare un veterinario. Lui la distese su un lettino, auscultandole il cuore. Scuoteva la testa, mentre cercava il posto migliore del torace per sentire il battito. Mi guardò fisso, porgendomi lo stetoscopio. “Senta, ha il cuore in completa aritmia. Non c’è più nulla da fare”. Lei, con la lingua fuori, viola per la cattiva circolazione, ansimava. Fissava nel vuoto, girando di tanto in tanto gli occhi verso di me. Io le carezzavo dolcemente la testa, l’avevano sempre tranquillizata le mie coccole. “Credo sia meglio farle un’iniezione, sta soffrendo molto e non c’è più nulla da fare”. Ecco, quella parola terribile continua ancora a risuonarmi come una campana di campagna, anche ora a distanza di tanti anni. Una sentenza, una condanna. Una triste, inevitabile realtà con la quale nella vita mi son dovuto incontrare troppe volte. Rimasi immobile, in silenzio, come un bambino che viene a conoscere una verità più grande di lui. Sospel, la nuvola bianca, custode di tutta la storia della mia vita, sarebbe morta. I suoi occhi che racchiudevano mille corse, mille abbracci, mille e più carezze di tutti quelli che avevo amato, si sarebbero chiusi, per sempre. Mai più insieme, mai più nei prati in primavera o sulla sdraio, in giardino, a carezzarle il pelo crespo e candido. Incominciai a piangere come non avevo mai fatto, disperato, senza nessun ritegno, peggio di uno scolaretto bocciato all’esame di quinta elementare. Le lacrime mi scendevano lungo le guance, io uomo di mezza età, che di dolore ne avevo sopportato fin troppo, ero in balia alla disperazione. E lei, piccola grande anima, in fin di vita, girò il capo per cercarmi le mani, leccandomele, per consolare il mio dolore. Acconsentii con un cenno, senza riuscire a parlare, a quel triste rituale che è l’eutanasia, credendo al medico che quella fosse la soluzione migliore. Dolorosa, terribile, ma l’unica per non farla soffrisse. La portai a casa avvolta in una coperta, quella su cui dormiva ogni notte, lasciando guidare mio cugino che era con me. Non ne sarei stato in grado. La stringevo a me , sentendo il suo corpo raffreddarsi, inesorabilmente. Il suo corpo riposa oramai da anni sotto il fico, in quello che è il “cimitero dei miei cani”. Riposa con Pippo, con Agnese e con la cagnetta di Salvatore. La sua anima però corre con quella dei miei cari che non son più qui, per sempre, nell’unico vero mare che accoglie tutte le anime, quando il fiume della vita giunge alla sua foce. Non amerò mai più un animale come ho amato Sospel.