Seychelles

cataAvevo cambiato lavoro da due settimane appena quando una sera, rientrato a casa, mia moglie, sorridendo, mi comunicò che Natale e Capodanno, imminenti, avrebbe dovuto accompagnare un gruppo di turisti piemontesi alle Seychelles (lei lavorava al tempo in una nota agenzia viaggi torinese) ed il suo capo le aveva detto di portare anche me; passaggio gratis!
Non stavo nella pelle; la mattina nello spiegare al mio superiore che quell’occasione era irripetibile usai tutta la mia abilità persuasiva e come il miglior regalo di Natale mi concesse le ferie, anche se non le avevo ancora maturate.
Nei giorni a seguire che precedettero la partenza preparai i bagagli mettendo dentro la mia attrezzatura da apnea, compreso un coltellaccio da sub per affrontare eventuali squali o mostri marini. Avevo letto racconti sui serpenti velenosissimi che si avventurano nell’oceano indiano, delle mante dal pungiglione mortale e la fantasia fervida ed un po’ infantile trasformò i giorni prima della partenza nel trailer di un film di prossima pubblicazione.
Il viaggio fu lunghissimo; dodici ore, scalo in terra araba e volo di altre quattro ore. Poi l’atterraggio a Mahe e l’assalto immediato del caldo umido mentre si stava in coda per il controllo doganale.
Il giorno seguente ci avrebbe raggiunto Samuele, un amico di Borgo San Dalmazzo, un pazzo scatenato che oggi giorno diremmo appassionato di sport estremi.
Avrebbe volato con Somali Air Line, volo low cost che si dimostro una vera avventura.
Al momento dell’atterraggio a Mahe il pilota si accorse di essere un po’ “lungo” e diede nuovamente gas riprendendo quota, rischiando di finire a mare. Quando, al secondo tentativo riuscì nell’atterraggio, si aprì il portellone e i volti dei passeggeri furono il quadro perfetto di ciò che si era vissuto a bordo, tranne quello di “Samu” che sembrava un ragazzino appena sceso dal toboga.
Ci raccontò che allo scalo a Dubai il pilota era sbarcato, aveva indossato una tuta da meccanico bianca ed aveva armeggiato con chiave inglese e martello alla turbina. Dopodiché era risalito a bordo attendendo il rifornimento per poi ripartire.
Così raccontando Samu fece la prima cena con noi, approfittando di ciò che gli avevamo portato in stanza nel suo bungalow dal sontuoso buffet dell’albergo.
La mattina seguente mia moglie dovette seguire il gruppo nella prima escursione di quella splendida vacanza ed io uscii in spiaggia che il sole stava sorgendo appena. Samuele era accovacciato sul bagnasciuga ed era intento a far colazione con un granchio dal triste destino e mezza noce di cocco, raccolta in spiaggia.
Mi offrì l’altra metà e senza troppe parole mi indicò il catamarano a due posti ormeggiato sulla sabbia.
“Andiamo oltre il reef?”. Bisogna spiegare per chi non lo sapesse che il reef è la barriera corallina che protegge le isole dall’oceano tempestoso e permette che queste siano un paradiso in terra. Acqua tiepida e poco profonda, pesci multicolori, mare sempre calmo. L’onda di marea ricambia l’acqua ogni giorno e la vita tra i coralli è un arcobaleno infinito. Oltre il reef le profondità degli abissi nascondono innumerevoli pericoli: squali, onde di risacca con correnti che non ti permettono di rientrare, etc…etc…etc…
Assoluto divieto di oltrepassarlo; cartelli scritti ovunque in più lingue non ammettevano scuse. DANGER.
Figurarsi Samuele, tutto il suo pane, aveva solo bisogno di qualcuno che sapesse manovrare il catamarano per dargli una mano a vincere la risacca mentre era a bagno con la maschera. Io sapevo portare il catamarano, potevo sottrarmi all’avventura?
In un baleno prima che il guardiano se ne accorgesse filammo a mare lo scafo ed in un attimo issammo la randa che prese immediatamente il vento di terra.
Filava come un razzo e per ingannare chi dalla spiaggia ci aveva scorto, iniziammo a fare un paio di bordi, quasi volessimo regattare all’interno del lago.
Ma lentamente ci portammo verso il confine con il mare aperto, misurando l’altezza delle onde che si frangevano sul corallo. Avremmo dovuto sceglierne una bella alta per non urtare la superfice corallina, dura più di uno scoglio e come in una partenza della Coppa America lanciammo la barca un attimo prima che la sostenuta onda dell’oceano si frangesse in spuma color panna. Con un colpo deciso la prua si alzò verso il cielo ed il vento ci sostenne il tempo sufficiente a superare il limite che ci separava dall’oceano indiano.
Planammo sull’acqua mentre da terra cominciarono a giungere urla concitate portate dalla stessa brezza che aveva sospinto sino a quell’istante. La prua fendeva le onde sfidando le creste insidiose che traversavano la barca cercando di buttarci a mare. In un istante l’apparente calma della laguna si era trasformata in un inferno concitato tra la sfida di correnti antagoniste ed il vento che andava ad aumentare.
Rapidi, facendo planare il catamarano, puntammo verso il largo per poi fare un bordo e prendere il vento al traverso, costeggiando il bordo insidioso del reef. Samuele in piedi, a prora, issò il fiocco e la barca ebbe un’ulteriore accelerazione.
Era fantastico, in alcuni istanti sembrava di essere su una tavola da surf, altri sembrava che la vela si tramutasse in kyte prendendo il volo.
Le sartie stridevano, le vele tese a raccogliere ogni refolo d’aria, le virate da manuale non rallentavano di un nodo lo scafo. Avremmo potuto allontanarci e raggiungere Pralin, l’isola vicina.
Per un attimo ci pensammo, entrambi. “Che ci venissero a prendere…” urlò Samuele a voce alta. Fu la voce gracchiante di un megafono che ci esortava in perfetto italiano di rientrare immediatamente prima di essere accusati di furto e recuperati dalla guardia costiera che spense ogni ulteriore ardore di avventura.
Con un gesto delle spalle Samuele sentenziò che la festa era finita e con altrettanta perizia avremmo dovuto scegliere l’onda propizia per rientrare. Fu più semplice che uscire, avevamo il mare a favore ed in un attimo rientrammo nella laguna incantata, dirigendoci a riva cercando di contenere un atteggiamento rispettoso ma indispettito, in fondo eravamo due marinai di grande prestigio. O almeno così ci credevamo.
Non vi racconto ciò che ci aspettò a terra, stendiamo un velo pietoso. Il catamarano restò ormeggiato in spiaggia per il resto della vacanza. Non ci fu più concesso di usarlo. Passammo una giornata ad aprire i cocchi scherzando con alcuni turisti. Verso sera mia moglie arrivò con una Honda Civic a noleggio. Era radiosa, gliela avevano data per fare la spola con Victoria, la capitale a due chilometri dal villaggio. Samuele guardò l’auto, poi il suo sguardo si diresse verso la montagna dove nella notte i pipistrelli giganti andavano a dormire in profonde grotte.
Lo guardai facendo no con il capo, ma sapevo che l’indomani mattina ci aspettava una nuova avventura.

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