Spari a Fontvielle

fontwielleQuando la mattina saliva a bordo, tenendosi elegantemente al corrimano della passerella, il comandante Sattalich si soffermava un attimo a guardare verso le alture di Montecarlo, dove la sua bianca casetta spiccava sullo sfondo brullo della montagna.
Sembrava quasi recitare una breve preghiera e non ho mai avuto il coraggio di chiedergli quale fossero le parole che pronunciasse e quale pensiero lo portasse lontano, per un istante o poco più.
Poi con un cordiale “Bonjour” gettava uno sguardo a destra ed a sinistra alla ricerca di un apostrofo stonato che giustificasse un rimprovero, tanto per cominciare la giornata.
Quel giorno invece si dedicò immediatamente a preparare gli ormeggi per lasciare la banchina comunicandomi che dovevamo spostarci, anche con una certa sollecitudine, perché in porto sarebbe arrivato un grosso yacht che prendeva il nostro posto e quello di altre due barche attigue.
Il porto di Montecarlo all’epoca non era grande come quello attuale ed il fondale non era dragato a sufficienza se non in un canale centrale che aveva il suo culmine dove eravamo noi.
Ci venne destinato un ormeggio nel nuovo porto, quello di Fontvieille, vicino allo stadio.
Al tempo, parliamo degli anni settanta, quella zona era ancora proprietà del mare ed il porto non aveva nessuna barca ormeggiata. La dove oggi c’è il complesso del supermercato e tutti i negozi del centro commerciale non c’era nulla, tranne lo stadio e gli scogli sui quali si frangeva il mare.
Ci spostammo non senza fatica perché le onde si erano alzate potenti ed il motore entrobordo della nostra due alberi di quindici metri faticava a contrastarlo.
Un tragitto di meno di due miglia ci obbligò a prendere il largo per rientrare seguendo una stretta triangolazione.
Ormeggiare fu cosa semplice, la banchina era completamente deserta e così pure il resto del porto.
Non era ancora presente una illuminazione degna di questo nome ed i servizi di terra, energia ed acqua erano assenti.
La mia sensazione fu netta, eravamo passati dal centro del mondo ad un’isola deserta, dal luogo di massima sicurezza in un deserto sperduto ed abbandonato da Dio.
A peggiorare la situazione fu la notizia che quella Renault 5 che sopraggiungeva aveva alla guida la moglie del comandante che con un breve saluto lasciò la barca limitandosi ad un categorico e malaugurante “Bonne nuit”.
Nei giorni passati avevo parlato con alcuni marinai che mi avevano riferito spiacevoli racconti a riguardo di quel luogo isolato; regolamento di conti, spaccio e contrabbando.
Parole impronunciabili a Montecarlo, ma quella piccola area sembrava una zona franca, il confine tra il mondo incantato e la vicina casbah marsigliese.
Calò il sole e con lui si dileguò il mio buon umore. Avevo una lampadina a batteria con me, niente di più. Mille idee, mille pensieri: l’unica barca ormeggiata sicuramente avrebbe fatto gola a qualsiasi malintenzionato.
Tengo la luce accesa? Così sanno che c’è qualcuno a bordo, buona occasione per una rapina. La spengo, faccio finta che non ci sia nessuno. Barca abbandonata a se stessa, quale invito a scassinarla! Cercai con un buon whisky della fornita cambusa di respingere l’ansia crescente.
Cercai nei cassetti un’arma da utilizzare in caso di necessità, rassegnandomi a tenere con me un robusto coltello da cucina ripassando a mente tutte le istruzioni di difesa personale acquisite sotto naja.
L’ansia diventò fifa, paura. Scese la notte, buio pesto. Si, lo sò, sembra incredibile che a meno di due chilometri da una delle più illuminate cittadine della costa io fossi in un così assurdo cono d’ombra, ma ero al di là della rocca del principato e per quanto cercassi di convincermi del contrario, ero completamente solo.
Il whisky abbondante cominciò ad essere l’unico amico e tra mille pensieri il sonno e lo stordimento ebbero la meglio.
Iniziarono una serie di sogni inficiati dall’alcool confusi ed agitati, dove persone urlavano e cadevano a bagno. Strani mostri dalle lunghe chele li rincorrevano ed io ero nascosto tra gli scogli nella speranza di non essere visto.
Alcuni spari mi svegliarono di soprassalto, poi urla concitate e lo stridore delle gomme di un auto. Altri spari ancora. Anche se ero sottocoperta non ero al sicuro, la parte emersa della barca era perforabile dalle pallottole, la parete che mi separava dall’esterno non era certo fatta di robusti mattoni, ma legno e resina! Guardai il coltello che stringevo tra le mani e pensai che ci potevo giusto affettare un pò di pane e formaggio.
Poi una lunga frenata, il rumore di passi, qualcuno scappava senza fiatare. Dietro dopo poco, altri passi, tre o quattro persone, segugi, police. Guardai attraverso i piccoli oblò, la curiosità era troppa. Preferivo conoscere la realtà, qualunque fosse, piuttosto che essere in preda al terrore completo.
Qualcuno era salito a bordo, con il passo felpato, ma su una barca anche il passo di un gatto lo si avverte inequivocabilmente.
Guardai attraverso l’oblò di poppa, niente. A dritta ed a sinistra, nulla! Mi sollevai sulla punta dei piedi per far sporgere la testa dal boccaporto a prora ed i miei occhi incrociarono, a pochi centimetri da me, quelli della volpe, il destinato della caccia. Non disse nulla, mi guardò severo, impaurito, minaccioso, implorante. Aveva forse vent’anni come me o poco di più. Odore di sudore, di paura, di malaffare.
Dal lato opposto numerosi passi. La police arrivava. Con gli anfibi sull’immacolata passerella, battendo con il manganello sul mancorrente di ottone, ammaccandolo. Voci concitate, urla. Non sò dire se il contrasto tra il passo felpato e rispettoso del fuggiasco simile ad un gatto e gli zoccoli irriverenti dei cinghiali fu quello che mi fece scegliere.
Oppure il fatto che da sempre e comunque vedendo la caccia alla volpe ho tifato per “Le Renard” (la volpe), fatto sta che alla voce del policeman risposi con vigore: “C’est la bas, c’est la bas” indicando con la mano il fondo oscuro….della banchina, lontano dalla barca. Come in un gioco di bambini i poliziotti si guardarono e cominciarono a correre in quella direzione, tra il fracasso delle tintinnanti manette e gli scarponi da combattimento.
Io li guardai giusto il tempo necessario per rassicurarmi del loro non ritorno e tornai a chiudere il boccaporto.
Uscii in questo modo dalla scena, ero stato una semplice comparsa in quella sceneggiatura folle e disperata o forse ne ero il protagonista, non lo so.
Mi rimisi nella cuccetta in assoluto silenzio, rannicchiato ed in ascolto. Per un attimo lungo un’eternità l’unico rumore era il lento sciabordio del mare sul fianco della barca, poi il gatto si mosse con tutta l’attenzione possibile. Un attimo prima di scendere di bordo con i polpastrelli delle dita tambureggiò sul tek della coperta. Toc toctoc toc.
Noi utilizziamo abitualmente tremila vocaboli, per esprimerci. Le persone colte diecimila forse, quelli meno istruiti poco più di mille.
Fatichiamo a dialogare con chi non conosce la nostra lingua. Eppure, la volpe, il gatto, il bandito o assassino, lo spacciatore in fuga conoscono una lingua speciale, universale. Toc toctoc toc. Merci, non sei un infame. Non ti brucio la barca stasera. Però se la prossima volta tocca a te, arrangiati. Io non è detto che ti aiuto. Toc totoc toc.
Io tra le guardie ed i ladri preferisco i ladri. Non so perché.

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