Che io fossi un gatto l’ho sempre saputo. Sembra scontato dirlo ma non è così. Quando in compagnia di altri quattro, cinque fratelli lasciai il ventre della mamma, in quel turbinio di sensazioni forti che ti sottraggono al caldo tepore della placenta tutti i sogni che ti hanno cullato sino a quel momento svaniscono nel nulla e la luce forte, il primo respiro, la sensazione di freddo e di distacco ti scuotono e ti risvegliano dal torpore che ti ha rassicurato sino a pochi istanti prima. La lingua calda e viscosa della mamma che ti pulisce è la prima cosa che ti accoglie, dopo quel salto nel vuoto che toglie il fiato. Hai subito fame, fame di vita e di latte, cerchi la mammella libera della micia che ti ha cresciuto nel ventre e ti sembra di tornare indietro nella sua pancia, assaporandone il latte che sembra infinito. Gli occhi sono ancora chiusi e lo resteranno per qualche giorno, ti fidi dell’olfatto, e cerchi il tepore di quel pelo vellutato, il capezzolo saporito e le coccole, un mare di coccole pazienti che mamma sa distribuire a tutti quanti. Giorni felici, gambe tremolanti, una coda a spaghetto che sembra il manico di un ombrello. Provi ad alzarti, ricadi, ci riprovi. Ogni giorno le zampe diventano più sicure, infine un piccolo spiraglio di luce raggiunge i tuoi occhi, inizi a vedere. Lunghi baffi, occhi verdi e una lingua rosa che ti liscia il pelo, il musetto, ti lava in ogni momento e se provi ad allontanarti, lunghe zanne che potrebbero ferirti ti sollevano con dolcezza, per riportarti nella calda cuccia, con i tuoi fratelli. Allora ti guardi intorno, guardi la pelliccia variopinta di mamma gatta e capisci che sei un gatto, un felino discendente delle tigri dai lunghi denti, uno splendido esempio di perfezione. Naturalmente evoluta in migliaia di anni. Certo, questo è quello che capita alla maggior parte dei miei simili, forse anche quello che hanno vissuto i miei fratelli. Io no, per me il destino ha riservato tutt’altra storia e per niente semplice. Non so come né perché, un bel mattino mi sono ritrovato in mezzo a scatole di pelati usate, cartoni, bucce di patate e qualche bottiglia di birra. Spazzatura, sopra e sotto, dentro a un bidone al margine della strada, in attesa che il camion della nettezza urbana mi raccogliesse assieme a tutte quelle porcherie. Io non ne sapevo nulla, annaspavo alla ricerca del capezzolo di mamma gatta, avevo una fame tremenda e tanta paura. Forse si era allontanata per cacciare qualche topo? Dove erano i miei fratelli? Perché invece di sentire il profumo della cuccia dovevo respirare quel tanfo insopportabile? Fuori dal bidone strani rumori, ferraglia e motori, le voci di alcune persone. Poi uno scossone e in un attimo quello che era sopra diventò sotto e viceversa. Una lattina mi colpì in testa, facendomi un grande male. La paura diventò terrore e misi a miagolare con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Intanto mi sentivo scivolare verso quel rumore infernale, mischiato a ritagli puzzolenti. No, non è stata la mia voce a salvarmi, i miei lamenti erano troppo deboli per coprire quell’inferno. Mi ha salvato un cane, un cane di peluche nero che prima di me è uscito dal bidone. L’uomo che armeggiava con la leva del meccanismo per svuotare il cassonetto nel camion lo vide scivolare: “Fermo…” disse a voce alta, “guarda che bel cagnolino di stoffa, un giro in lavatrice e torna come nuovo, lo porto a casa a mia figlia…”. Così facendo lo prese con i guanti da lavoro, scuotendolo con forza dalle bucce che gli si erano incollate al pelo. Sotto lui c’ero io, rannicchiato sotto la sua pancia. Gli occhi dell’uomo mi notarono subito, era impossibile che non accadesse, il mio pelo nero come la pece era arruffato e gli occhi verdi smeraldo brillavano in cerca di aiuto. Mi prese per la collottola, che bella sensazione. Mi lascia sollevare, mi tornarono in mente le volte che mia mamma mi veniva a raccattare per il cortile, mentre cercavo di sfuggire al suo controllo. “Questo è vivo, è un gattino vero…povera bestiola, avrà meno di un mese, che brutta fine stava per fare…”. Così dicendo mi diede una scrollata, come aveva fatto prima al cane, per togliermi la sporcizia di dosso. Certo, mi avesse leccato un po’ era meglio, ma anche così poteva andar bene. Guardò il cane di peluche, dai grandi occhi di vetro e poi guardò me. Io pensai che non avrebbe avuto dubbi, ero molto più bello. Poi ero vivo e anche se un po’ puzzolente, il mio pelo era sano. Non c’era bisogno di quel “giro in lavatrice”! Invece il fatto che fossi vivo costituiva un problema…scelse il cane di stoffa. “Questo almeno non fa la cacca e non bisogna dargli da mangiare tutti i giorni…”. Guardò nel cortile oltre la cancellata, dove alcune ciotole indicavano che qualche randagio trovava li rifugio e senza troppe attenzioni mi mise al di là del muretto. Che delusione, pensavo che lui mi avrebbe potuto riportare dai miei fratelli, ma mi sbagliavo. Mi girai a guardarli mentre con il camion si allontanavano e capii che degli uomini con quei grandi guanti era meglio non fidarsi. Il profumo che arrivava dalle ciotole mi distrasse da ogni pensiero, avevo fame e anche se era ancora tempo di latte per me, l’istinto mi disse che con quella “roba” mi sarebbe passata. Non feci in tempo ad assaggiare neanche un boccone che il soffio di un grosso gatto rosso, paratosi davanti, mi fece indietreggiare. Una potente zampata mi raggiunse al muso, non avevo mai preso una sventola così! Mia mamma qualche volta me le aveva suonate, ma con dolcezza, tenendo gli artigli ben riposti nel fodero. Questo bullo di cortile invece mi assestò uno “sganassone” che mi graffiò anche un orecchio. Mi misi a urlare, avevo paura e male. Accidenti a te, gatto! Seconda lezione in pochi minuti: prima di avvicinarti a una ciotola assicurati che non ci sia il “titolare” nelle vicinanze. Non gli bastò quell’attacco, cominciò a soffiare come un mantice, facendo versi da notte di Halloween. Io indietreggiai gonfiandomi come un porcospino, non potevo fare altro. Inarcai anche la schiena, sperando di sembrare più grande. Ma lui era davvero terribile, si preparava a darmi una lezione con i fiocchi. Aveva gli occhi in fiamme, la coda piegata come la chiave di violino, a terra gli artigli stridevano mentre li faceva uscire e rientrare e poi quei versi, terribili, mai sentiti. Ne andava della mia vita, lo capii subito, non c’era via d’uscita. Che brutta storia, solo un giorno prima ero così felice e tranquillo. Almeno la vita mi avesse dato il tempo di diventare un poco più grande. Per quanto cercassi di sembrare grosso ero un semplice batuffolo di pelo arruffato e il mio miagolare era da vero lattante. Lui invece sembrava un leone, una belva pronta a sferrare l’attacco finale. Con tutto l’orgoglio felino che avevo in me lo guardai fisso negli occhi. Forse erano i miei ultimi attimi di vita, ma non volevo essere un codardo, volevo affrontare quella mia prima e unica battaglia in modo degno della mia natura. Ecco, in quell’istante preciso capii che io ero un gatto, un vero gatto, e che se non mi fossi trovato in quella brutta situazione, se la mia vita avesse avuto un altro corso, sarei diventato il re del quartiere. Avrei fatto impazzire tutte le gattine del circondario, avrei dato il via a generazioni di felini da manuale. Va bene, non era la mia storia, non c’era futuro per me, ma mi sarei battuto come un vero eroe. Dentro ero un gattone e se anche le mie zampe erano malferme e i miei artigli si sarebbero piegati al primo affondo, ero pronto a iniziare io. Tesi i muscoli chiedendogli l’ultimo sforzo, quello che ogni eroe che si rispetti sente scorrere nel sangue sino all’ultima cellula del suo corpo, per avere tutta l’energia possibile. Lo vidi indietreggiare, non era possibile. Un piccolo passo, un accenno di resa, di ritirata. Un piccolo gesto, impercettibile quasi, ma inconfondibile. Il suo sguardo si alzò, fissava sopra la mia testa. Mostrò le fauci, ma fece un altro passo indietro. Incredulo feci io un passo avanti, ma sentii dietro a me una presenza. Poi il verso inconfondibile, potente, deciso. Lo stesso che aveva fatto scappare un gabbiano, i primi giorni della mia vita, che cercava di insidiare la nidiata dei miei fratelli e me. Dietro, proprio dietro di me, anzi oramai sopra come uno scudo imbattibile mia madre, la mia mamma gatta adorata mi aveva trovato, dopo una notte di ricerche ed era arrivata proprio ora, nel momento più importante della mia vita dopo la nascita, quello della mia probabile morte. Con una forza che solo le femmine sanno avere quando il loro cucciolo è in pericolo, si lanciò contro il gattone assestandogli due zampate che non lasciavano dubbi. Lui si sgonfiò e con le orecchie basse e la coda dritta si lanciò come un fulmine verso le barre della ringhiera, per fuggire lontano, oltre i bidoni. Mamma si rassicurò ancora un attimo che fosse lontano e senza l’intenzione di tornare, poi sgonfiando il suo vello irritato mi si avvicinò, leccandomi il musetto e l’orecchio che stava già meglio. Mi strofinai a lei, era orgogliosa, ne ero sicuro, a vedermi così coraggioso. Mi leccò a lungo, riordinandomi come un bimbo prima di andare a scuola e poi, quale sensazione meravigliosa, sentii le sue incredibili fauci aprirsi per afferrarmi dal collo e sollevarmi. Noi gatti non piangiamo, è risaputo, ma a me gli occhi diventarono lucidi. Ero felice come non lo ero mai stato e, soprattutto, ora lo sapevo, ero un gatto vero!
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